Aragoste, champagne, caviale, mozzarelle di bufala e babbà: alcuni detenuti del carcere “San Giuliano” di Trapani non intendevano rinunciare ai piacere della buona tavola. Ed è per questo che, attraverso il tentativo di corruzione di agenti della polizia penitenziaria, quattro ergastolani, di origine campana, hanno messo su un piano perché prelibatezze e leccornie arrivassero all’interno dell’istituto penitenziario trapanese. Ma il loro piano si è inceppato.
Così, Giuseppe Castaldi, 51enne napoletano, Massimiliano Esposito, 37 napoletano, Arcangelo Valentino, 46 napoletano, Nicola Palumbo, 49 napoletano, grazie ad una minuziosa operazione degli investigatori denominata “Aragosta”, sono stati scoperti e bloccati. I quattro sono soggetti a pene detentive lunghe, perché sarebbero colpevoli di delitti, quali l’omicidio e l’associazione a delinquere di stampo mafioso, in quanto appartenenti a potenti clan della camorra. In particolare, Arcangelo Valentino sarebbe un affiliato al clan dei Di Lauro.
Ma andiamo ai fatti. Le indagini scattano quando i quattro tentano di adescare un agente della polizia penitenziaria. Obiettivo: convincerlo ad accettare somme di denaro (stipendi mensili fino a mille e 500 euro) in cambio di “collaborazione”. In sostanza, l’agente avrebbe dovuto consentire l’introduzione in cella di “ogni ben di Dio di cibarie”.
Babbà napoletani, aragoste dell’Atlantico, champagne francese, mozzarelle di bufala campana, caviale del Baltico, sarebbero giunte a Trapani per essere trasferite all’interno del carcere. Ma, secondo gli inquirenti, “il tentativo di corruzione di pubblico ufficiale significava molto di più”. Negli ambienti carcerari, infatti, il poter disporre di beni normalmente non a disposizione degli altri detenuti, pone il recluso in una posizione di potere e supremazia”. Ma c’era anche il rischio di andare oltre. Secondo l’autorità giudiziaria, infatti, “dai generi alimentari ben presto le richieste dei detenuti avrebbero riguardato armi da taglio, come coltelli a serramanico, utili ad imporre i loro voleri nell’ambito carcerario”. Cosa ancor più inquietante, visto che i quattro “erano ristretti nella sezione di massima sicurezza della prigione e con un certificato penale dalla estrema pericolosità”, si legge in una nota del comando provinciale dei carabinieri.
In sostanza, il piano strategico elaborato dai quattro sembrava non fare una grinza. Ma fino ad un certo punto. Siamo a luglio scorso e nel carcere arrivano nuovi agenti che avviano la loro opera di vigilanza sulle celle dei quattro ergastolani. I quattro non si imbarazzano e non esitano a formulare le loro richieste, attirando l’attenzione di un giovane agente, ma ignari del fatto che l’uomo è tutt’altro che intenzionato ad accondiscendere alla proposta. Avvicinato con la prima promessa di mille euro, l’agente riferisce il tentativo di corruzione al proprio comandante di reparto. Scattano le indagini. Gli uomini del nucleo operativo e radiomobile di Trapani, con quelli del reparto operativo del comando provinciale, iniziano a lavorare non stop per smascherare l’originale piano. Gli inquirenti decidono di “stare al gioco”. La scelta investigativa di simulare l’accondiscendenza dell’agente, secondo gli inquirenti, infatti, pare essere “l’unica strada per giungere ad un perfezionamento del reato, tale da infliggere la pena più pesante ai colpevoli”.
Così, da quel primo tentativo di circuizione dell’agente, ogni altro contatto tra i 4 e la guardia comincia ad essere “monitorato”. Nulla sfugge.
Intanto, i detenuti non avrebbero potuto agire da soli. Era necessario che qualcuno dall’esterno si occupasse di tutto. Ed ecco l’ingresso in scena dei familiari che periodicamente arrivavano dalla Campania per far visita in carcere ai loro congiunti.
I detenuti, infatti, consegnano alla guardia un foglio con i riferimenti dei familiari per avviare la “collaborazione”.
Dopo una serie di contatti, proposte di incontro, dilazioni e frenetiche accelerazioni, arriva il momento dell’incontro. I familiari devono raggiungere Trapani sia per far visita ai loro cari sia per incontrare – in luogo sicuro e riservato – la guardia a cui consegnare il denaro, ma anche un pacco contenente aragoste, champagne, caviale, mozzarelle di bufala e babbà.
Arriva il momento. E’ il 20 agosto scorso e i parenti atterrano all’aeroporto Falcone-Borsellino di Palermo. Ad attenderli, i carabinieri in borghese pronti a pedinarli fino a destinazione. Con un volo da Capodichino arrivano Francesco Nocera, cognato di Valentino, e Annalisa Nocera, compagna del detenuto. Con loro anche il fratello di Valentino e altri familiari che, tuttavia, non avrebbero avuto un coinvolgimento nella vicenda.
E se il Nocera sarebbe stato il prescelto per intrattenere i contatti con l’agente, la donna sarebbe stata il veicolo di comunicazione tra il detenuto e gli altri familiari in Campania. In particolare, sarebbe stata proprio lei a gestire l’incontro di Trapani nei minimi dettagli, lasciando il momento della consegna del denaro al fratello, incensurato commerciante di Napoli. Ma torniamo al Falcone-Borsellino, dove i campani noleggiano una vettura di grossa cilindrata per dirigersi a Trapani. Alle 9 iniziano i colloqui con i detenuti, ma prima Nocera deve incontrare l’agente. Lascia gli altri davanti al carcere San Giuliano e si dirige verso la rotonda di San Cusumano di Erice. Ad attenderlo, c’è l’agente che è apparentemente da solo. Con lui, infatti, un dispositivo di sicurezza e di intervento dei carabinieri. Avviene lo scambio, ma, al segnale concordato, i carabinieri in borghese e gli agenti della polizia penitenziaria intervengono e bloccano Nocera, arrestandolo in flagranza di reato.
Oggi un’altra tappa dell’operazione: il gip di Trapani,. Pietro Grillo, ha emesso cinque ordinanze di custodia cautelare nei confronti dei quattro ergastolani e di Annalisa Nocera. Per i quattro l’ordinanza è in carcere – sono stati separati e inviati in diversi istituti penitenziari della penisola: Milano, Como, Nuoro e Cagliari -, mentre per la donna sono stati disposti gli arresti domiciliari.
Ma le indagini sono tutt’altro che concluse. Gli inquirenti, infatti, non escludono che “altri agenti possano avere consentito l’ingresso di generi di lusso nel carcere e favorito condotte illecite in cambio di soldi o di altri benefici” e intendono “approfondire eventuali coinvolgimenti di altri agenti di polizia penitenziaria precedentemente in servizio presso il carcere di San Giuliano”.