Anni fa Leonardo Sciascia in una famosa provocazione disse: “I magistrati, appena nominati, dovrebbero essere costretti a passare i primi tre giorni di esercizio della loro funzione nelle peggiori carceri italiane, in mezzo ai detenuti”.
A quasi quarant’anni di distanza quella frase paradossale – una provocazione, appunto – può essere applicata a un altro tipo di situazione – un altro paradosso – quotidiana e silenziosa: il pregiudizio che a Palermo colpisce chi nasce nelle periferie cosiddette “difficili”.
Pensiamo per esempio allo Zen. Per chi è cresciuto in via Libertà e dintorni è quasi sempre sinonimo di degrado, luogo da evitare o da cui fuggire. E se, invece, ci vivessimo per tre giorni? Dormire in un appartamento dello Zen 2, fare la spesa, accompagnare i figli a scuola, aspettare l’autobus che passa quando gli pare. Tre giorni bastano per comprendere quanto sia comodo il pregiudizio finché non ci riguarda da vicino.
Chi è nato nelle zone residenziali porta dentro un’immagine magari stereotipata ed esclusiva: palazzi grigi, piazze di spaccio, pistole facili, ragazzi con felpa e cappuccio che, si pensa, non hanno voglia di fare niente. È un’immagine che protegge, che permette di sentirsi giusti, nonostante mille ipocrisie e scheletri nell’armadio di certi “colletti bianchi” con giacca e cravatta, senza interrogarsi, magari, sulle proprie fortune ereditate, sulle responsabilità collettive, sull’abbandono di decenni di quel quartiere.
In realtà, basta poco per scoprire che la vita lì pulsa come in via Ruggero Settimo. Semplicemente con meno maschere e, al contempo, meno opportunità. Sciascia, paradossalmente, immaginava che i magistrati provassero cosa significa perdere la libertà prima ancora di essere condannati. Noi potremmo usare lo stesso metodo per comprendere cosa significa essere condannati a prescindere.
Bisogna riconoscere che il privilegio più grande di chi nasce in determinate condizioni favorevoli è di poter giudicare senza mai essere stati giudicati. Tre giorni allo Zen basterebbero a far crollare qualche certezza e a ricordarci che la distanza tra “noi” e “loro” non è morale, è solo sociale e mentale.
Forse è ora di invertire la rotta, smettere di chiedere a chi vive allo Zen di “guadagnarsi” un posto nei nostri salotti e cominciare a chiederci se noi meritiamo di starcene tranquilli nei nostri agi senza aver mai tentato, davvero, di capire.

