Don Totò a Palermo lo conoscono tutti. Ci vive da secoli, non se n’è mai andato. Mai. Magari, in epoche passate, a qualcuno sarà parso di non vederlo perché si è preferito tenerlo sotto traccia, e in anni più recenti, forse, è stato ignorato perché televisioni e giornali, storditi dal quotidiano profluvio di cronaca viva, hanno smesso di occuparsi di lui e non gli dedicano più neppure una riga, né una parola, né un pensiero distratto.
Ma don Totò è sempre lì, eterno e inamovibile, dimenticato perfino da polizia, carabinieri, magistrati, eternamente alle prese con un capo dei capi mafioso da catturare. Finanche i sociologi, una volta attenti alle minime sfumature, hanno finito per trascurarlo. Ma don Totò, fedele al ruolo che la cultura popolare gli ha consegnato, se n’è rimasto dov’era, là, nel suo cantuccio, pacifico e indisturbato. Ossequiato e riverito, adulato e blandito, a disposizione degli amici, e degli amici degli amici. Come sempre.
Da tempo immemorabile, nelle periferie e nei sobborghi, in ogni momento del giorno e della notte, tutti hanno sempre saputo dove, come e quando trovare don Totò. Lo sapevano fin dagli inizi del secolo scorso, quando la città, spogliata del suo ruolo di capitale mitteleuropea dopo la magica stagione della Belle Époque, si ritrovò nuda e povera, annessa ad un pezzo d’Italia accentratore che aveva nel Piemonte il cuore dei suoi interessi. Gli organi dello Stato latitavano, vigeva la legge del più forte, e chi forte non era aveva bisogno di qualcuno che facesse valere le sue ragioni. Ragioni di giustizia sociale, il più delle volte.
Sapevano tutti dove trovare don Totò negli anni Venti, quando in Sicilia sbarcarono il prefetto di ferro Cesare Mori e le sue truppe con il mandato di rastrellare avamposti e retrovie delle organizzazioni mafiose. Le forze si concentrarono sui paesi montani e sui comuni dell’entroterra in mano ai vecchi notabili di Cosa Nostra, e pure allora il furore repressivo sfiorò appena le borgate di Palermo, che continuarono ad avere in don Totò il riferimento naturale per ogni necessità.
Don Totò, un simbolo
È il caso di chiarire: la figura di don Totò non sempre coincide con quella del capomafia di quartiere. Il mafioso è percepito dalla comunità come un soggetto spregevole, un criminale feroce e sanguinario, un brutto ceffo prevaricatore che vive nel culto della violenza e del malaffare. Don Totò no. Lui è considerato il bene che contrasta il male e per questo gode di un’incondizionata indulgenza. Don Totò è un servizio a vantaggio della collettività. Non è una persona. È un simbolo. È un totem da venerare, incensare, supplicare alla stregua di una divinità. Don Totò è il signorotto, spesso rozzo e incolto, ma ritenuto un illuminato pozzo di sapienza, il nume al quale la comunità attribuisce autorità, autorevolezza, saggezza ed equilibrio, qualità che la gente comune non può vantare.
Don Totò è colui che amministra territorio e giustizia secondo il buon senso. Il “suo” buon senso. Ci si accosta a lui con atteggiamento di deferenza perché appiani un dissidio, risolva una questione, ristabilisca l’ordine sociale. Una lite con il vicino, un diverbio con un conoscente, un credito non riscosso, un’offesa gratuita, un gesto di prepotenza. Troppo complicato chiederne conto al magistrato in un’aula di tribunale. Meglio lasciar perdere “quella legge” e lavare i panni in famiglia, nella casa di don Totò, magari presentandosi a braccetto con un “amico”.
Lui è giudice unico e inappellabile. Pronuncia in tempo reale sentenze che sono immediatamente esecutive. La sua parola, parola di “accomodamento”, mette fine ad ogni controversia e viene ascoltata con rispetto e devozione. Nessuno oserebbe mai disattenderla o metterla in discussione. Per un torto del genere a Palermo si muore. Casi rari, per fortuna. Del resto è notorio che don Totò è uomo di pace e ricorre alla violenza solo se costretto dalle circostanze. Sempre a malincuore, ma in nome della giustizia.
Gli anni Sessanta
Negli anni Sessanta, nella zona di Acqua dei Corsari, dettava legge “’u zu Iachinu Bellomo” detto “u malantrinu”, don Totò di gran prestigio in tutta la fascia costiera. Aveva la fedina penale immacolata. Qualche denuncia, nessuna condanna. Era parente stretto di un’affollata famiglia di malacarne ma lui non risultò mai affiliato all’organizzazione mafiosa. Se ne stava in disparte e amministrava a suo modo la giustizia. Con assoluta equità, giurava la gente del posto.
Un giorno gli si presentò a domicilio un tale, mastr’Antonino Gizzi, umile lavoratore noto come persona perbene, pronto a sottoporgli uno spinosissimo caso. Aveva tre figlie che lavoravano nella fabbrica di argento Stancampiano, proprio sulla strada litoranea, e potendo acquistare oggetti preziosi a prezzo di costo si erano riempite la casa nella prospettiva di un probabile matrimonio.
Un pomeriggio l’appartamento, rimasto incustodito, fu svaligiato. Sparirono le poche cose di valore. Dell’argenteria non rimase traccia. Una rapida e discreta indagine condotta con il tam tam di borgata svelò la più amara delle verità: il ladro era il fratello Pippinu, un tipaccio di pessima reputazione che viveva di espedienti. “Vero è che si tratta del mio sangue – sbottò mastr’Antonino di fronte a ‘u zu Iachinu – ma io uno sfregio così non me lo posso accollare. Mi dicesse vossia che cosa devo fare”.
‘U zu Iachinu si prese un giorno e una notte per decidere. Quindi sentenziò: Pippinu avrebbe dovuto restituire fino all’ultimo frammento rubato e astenersi dal compiere furti nella zona per almeno cinque anni. Ma siccome c’era l’aggravante della parentela, scattò un supplemento di pena: una bella passata di legnate, tanto per ricordarsi dell’ignobile malefatta.
Don Totò, ovvero ‘u zu Iachinu, aveva un paio di scagnozzi che servivano proprio per sbrigare queste pratiche. La condanna fu eseguita nel giro di quarantotto ore. Informato del verdetto, Pippinu si consegnò in un lampo a don Totò e si dichiarò pentito e pronto a pagare. Riportò subito in casa del fratello il maltolto fino all’ultima scheggia, il giorno dopo passò a prendere i due bastonatori designati, si appartò con loro dietro a una fabbrica di mattoni di via Messina Marine e si buscò la meritata razione di mazzate.
Gli anni Ottanta
Uomo di rispetto negli anni Ottanta fu Gaetano Sciortino, detto don Tano, che dalla sua casa di via Ciullo D’Alcamo, zona Sampolo, si prendeva carico di tutte le tragedie private che incombevano sul territorio. Neanche lui sfoderava il patentino di mafioso ma aveva avuto formale licenza di esercitare l’attività del don Totò dalla famiglia di Borgo Vecchio.
Don Tano dovette intervenire con la dovuta energia in uno dei periodi più caldi della storia di Palermo, quando già infuriava la guerra di mafia. Mentre boss e picciotti cadevano a grappoli sotto il fuoco dei corleonesi, un uomo alto e massiccio, Alfredo Cinà, titolare di una taverna-osteria di via Autonomia Siciliana, ebbe l’incauta pensata di ritardare oltre il lecito il saldo del conto al fornitore di bombole di gas.
Gli doveva la miseria di settantamila lire, ma il bombolaio Cinuzzo Sutera, che aveva la rivendita in via Filippo Cordova, stanco di sentirsi ripetere come una litania “oggi non posso, torni la settimana prossima”, chiese soccorso a don Totò-don Tano. Il quale neppure dovette scomodarsi di persona per strigliare Cinà. Gli fece recapitare un messaggio orale tramite uno dei suoi tirapiedi, con chiosa finale: “Hai ventiquattr’ore di tempo per fare il bravo ragazzo”. Ne passarono meno di dodici. L’oste corse frettolosamente a deporre sette banconote da diecimila sul banco di Sutera, con tante scuse per il disguido. E l’incidente si chiuse lì.
Sembrano storie d’altri tempi. Sembrano. Perché ancora in questi giorni, ora, adesso, nel quartiere di Uditore, è possibile vedere decine di borgatari, tutti illibati fino a prova contraria, genuflettersi e sfoderare compiaciuti sorrisi di approvazione di fronte a don Totò. Ossequi e salamelecchi si ripetono ai semafori della rotonda di via Leonardo da Vinci, al bar-tabacchi, in farmacia, all’edicola in piazza. Scene sconcertanti che qualche tempo fa lasciarono senza fiato un distinto signore in attesa al banco salumeria di un supermercato della borgata. Chiese sommessamente chi fosse quel tizio a cui facevano “tanta schiumazza”. Gli risposero: “Unu ca ci avissirru a vasari i manu”.