Quel bagliore improvviso ce l’ho ancora davanti agli occhi: mi basta socchiuderli e il ricordo riaffiora con una nitidezza prodigiosa. Mi ricordo tutto: la mattinata cupa di un inverno straordinariamente rigido, la pioggia che picchia forte sulla vetrata della finestra, di là dalla quale si scorgevano le gobbe verdastre di Monte Pellegrino, la scrivania nera della saletta d’ingresso di casa mia, quando abitavamo alle “Case Popolari” di via Brigata Aosta… E mio fratello Vladimiro che scriveva, scriveva e scriveva senza fermarsi mai (se non per intingere il pennino metallico nel calamaio d’inchiostro blu) su di un quadernetto dalla copertina nera zigrinata. Lo avevo visto spesso così impegnato ma non ci avevo mai fatto caso. Avevo troppo da fare per conto mio, mi inventavo un gioco al giorno che mi piaceva da morire fare da solo, anche se per casa circolavano gli altri miei quattro fratelli.
Ma quella mattina mi ero all’improvviso appisolato sulla poltrona sistemata all’angolo tra la scrivania e la porta di casa. Mi succedeva di frequente di addormentarmi tutto d’un colpo, stremato dall’ultimo gioco praticato o dall’ultima partita disputata nel lungo corridoio che dalla saletta arrivava fino alla cucina. Un budello, in realtà, lungo meno di una decina di metri e largo non più di tre: ci giocavamo in cinque, tre contro due, i tre più piccoli contro i due grandi. Ed erano così accanite quelle partite che finire stremati all’improvviso era più che naturale.
E a me capitava prima che agli altri, perché ero davvero un bambino, otto, nove anni al massimo. Ed ero pure gracile e macilento: su di me la fame ereditata dalla guerra aveva lasciato un segno più pesante che sugli altri miei cinque fratelli. E sull’unica sorella, la più grande dei figli, una dea, una sirena, una stella: questo era per noi Adriana. E non solo perché era diversa, essendo femmina tra tanti maschi, ma perché lei viveva sognando.
Quella mattina mi ero arreso alla straripante forza dei miei due fratelli avversari un po’ prima del previsto e mi ero gettato sulla poltrona, subito sprofondando in un sonno profondo come il mare. E anche di più. Il sonno dei bambini è qualcosa che poi si rimpiange tutta la vita, perché – dopo – quando ti svegli, sei di nuovo in grado di correre e saltare meglio di prima. Un sonno ristoratore che ti rimette in sesto e per interromperlo non basta un richiamo a voce alta, oppure due, o uno strattone, oppure due: devi esser anche disposto ad usare le mani, se necessario.
Ma quando mi addormentavo – e mi succedeva dovunque e comunque, anche all’impiedi – era inutile provare a svegliarmi con le buone. Con le cattive, sì, era possibile, ma chi lo faceva se ne pentiva perché, appena riaprivo gli occhi, scoppiavo in un pianto senza freni che niente e nessuno riusciva a fermare. Tranne mia madre, che alla fine arrivava trafelata dalla cucina e strillando come un’aquila cacciava via il responsabile e dolcemente, col tempo che ci voleva, riusciva, tra paroline dolici sussurrate all’orecchio e cantilene e nenie di sua invenzione, mi svegliava. Ed io, appena riaperti, avevo già gli occhi colmi di lacrime, come in un clic istantaneo. Poi focalizzavo nella trama obliqua delle lacrime, il volto amatissimo della mamma e nel mio viso subito sbocciava, come fiore in un campo di grano, il mio sorriso più bello.
Ecco, quella mattina era una di quelle, io dormivo come un sasso mentre tutta la casa, come sempre, era una sarabanda fragorosa, insopportabile, come può essere un concerto eseguito da una banda di suonatori stonati. Loro, i miei quattro fratelli, continuavano la partita nel corridoio tra schiamazzi, urla e improperi vari mentre io, tutto rattrappito dentro la poltrona, dormivo come un angioletto e Vladimiro continuava a scrivere le sue misteriosissime cose senza fermarsi un attimo, come se all’orecchio, anzi che quel fragore insopportabile, gli giungesse una musica celestiale. Tipo la suite di Bach che, quand’era l’ora e il giorno designati, il babbo suonava col violoncello dentro il suo studio, separato da quella scrivania nera solo da una porta di duro legno di noce.
Una casa, una famiglia, la mia, davvero speciale, nella quale succedevano cose che, a ripensarci oggi, non sembrano di questo mondo. E infatti non lo erano, perché quello era un altro mondo, quello venuto fuori dalla tragedia della guerra, che aveva tutto spianato a zero, perfino la coscienza, se non la memoria, degli uomini.
Ad un tratto “quel” bagliore squarciò il buio d’intorno, là oltre la finestra che dava su Montepellegrino. Una lama di luce abbagliante oltrepassò uomini e cose e si fermò dritta e potente sul mio sonno invincibile, seguita dappresso da un crepitio di fulmini e saette così potenti da far tremare tutta la casa. E in un lampo, lo spazzò via, come fa il vento con la sabbia. Ed ancora oggi nessun dettaglio, pur minimo e all’apparenza insignificante di quegli istanti, mi sfugge. Aprii gli occhi, anzi li spalancai, come assalito di colpo da una paura incontenibile. Che succede? E il terrore si impadronì subito di me e cominciai a tremare di paura e a piagnucolare: “Mamma, mamma…”, gemevo e mi sembrava di morire.
Finché, fissando lo sguardo, misi a fuoco la sagoma di Vladimiro curvo sulla scrivania, che scriveva ancora, a dispetto di tutto, anche di tuoni e lampi e pareva non essersi accorto di nulla. Vederlo chino su quei fogli anzi che quietarmi, mi turbò ancora di più e dai gemiti passai direttamente ad un pianto inarrestabile, continuando a invocare la mamma. Che quella mattina non era in casa e, quindi, il mio pianto diventò presto una convulsione così straziante, che ad un certo punto – quasi un prodigio – arrivò fino a Vladimiro.
Che si scosse, sproloquiò una serie di imprecazioni e finalmente mise a fuoco la situazione. Ed intervenne. Mi abbracciò, mi diede un paio di bacioni, li schioccò sulla mia guancia come era solito fare, quando la luna gli girava per il verso giusto e, visto che non otteneva effetto alcuno, ad un tratto disse con un tono solenne, manco mi stesse svelando chissà quale segreto: “Se stai buono, ti leggo un po’ di quello che ho scritto…E così la finirai di piangere!”.
E cominciò a leggere e aveva un’aria così ispirata che, subito dopo il primo attimo di smarrimento, mi catturò, mi conquistò, mi affascinò al punto che quando ebbe finito, ci restai male e implorai: “Ancora… Ancora…”. E lui proseguì, sembrava più contento di me, ci mise ancora più pathos nel leggere il racconto che aveva appena scritto. Che non era un racconto qualsiasi, che so, una di quelle struggenti storie d’amore e di peccato, che già da bambino mi piacevano molto e andavo con la mia mamma a vedere i film di Amedeo Nazzari e alla fine piangevo insieme a lei. No, erano storie sue, erano storie di pallone o di corse e rincorse di ciclisti : lui se le inventava, lui se le scriveva, lui se le leggeva. Tutto da solo, e ci passava le giornate e i mesi e gli anni più belli della sua prima giovinezza. Ed era felice solo così.
Ma quella mattina lo scoprii ancora più felice, perché le sue storie le stava raccontando a me e alla fine, quando io avevo da un pezzo finito di piangere e lo guardavo incantato, come si guarda una stella, i suoi occhi si erano riempiti di lacrime e io gli chiesi: “Perché piangi? Che ho fatto di male?”. E lui, abbracciandomi: “Ma che dici?… ‘U picciriddu miu!… Tu, questa mattina mi hai fatto capire che la strada che ho scelto è quella giusta !”. E mi schioccò, stavolta su entrambe le guance, due bacioni che mi pare ancora di sentire sulla pelle.
E iniziò lì, quasi annunciata da un lampo, la storia di un grande giornalista, che amò così tanto il suo mestiere da dedicargli la vita. Senza mai risparmiarsi. Perché, se lo avesse fatto, non avrebbe assaporato il gusto speciale, unico che sa dare la felicità. Sia pure a costo di riprendersele troppo presto, la vita e la felicità.
E iniziò lì anche la mia, di storia, non bella e prestigiosa come la sua, ma pur sempre una esemplare storia di amore e dedizione . Quale sempre dovrebbe essere – ma raramente accade – quella fra due fratelli che hanno scelto di percorrere insieme, sia pure uno alla volta, lo stesso misterioso, impervio, tortuoso e spesso solo illusorio sentiero che conduce lontano, in un emisfero solo tuo, che gli altri, tutti gli altri, possono solo immaginare (anche invidiare e disprezzare) ma non profanare.
Ps. A vent’anni dalla sua scomparsa, questo vuol essere il mio ricordo di Vladimiro.