PALERMO – Cosimo Vernengo aveva una comprensibile fretta di tornare a casa. Nove anni in carcere sapendo di essere innocente: non deve essere stato facile. Quella sera di ottobre del 2011 non si accorse che aveva la carta d’identità scaduta. Niente aereo. La sua prima notte da uomo libero la trascorse sul treno che lo riportava a Palermo. Poco meno di cinque anni dopo le indagini ci dicono che, una volta a casa, si sarebbe ripreso in mano la sua vita di mafioso. Almeno così sostengono i carabinieri del Ros che due giorni fa lo hanno arrestato per una storia di pizzo.
Si smette di essere mafiosi in due modi. Da morti o da pentiti. La cronaca ci impone di rassegnarci a una mafia dei soliti noti. Basta scorrere l’elenco delle principali operazioni di polizia degli ultimi anni per scoprire che gli uomini d’onore si cuciono addosso la caratteristica dell’irredimibilità. Il carcere non cambia le cose. Si accetta in silenzio la reclusione, persino quella ingiusta.
Cosimo Vernengo meriterebbe di stare in una categoria a parte. Una categoria che nasce dalla forza dei numeri. Con Vernengo siamo a tre. Tre imputati condannati ingiustamente all’ergastolo per la strage di via D’Amelio, scarcerati dopo nove o addirittura sedici anni di detenzione, e ricaduti nell’errore. Prima di lui era toccato, nei mesi scorsi, a Salvatore Profeta e Natale Gambino. Colpevoli di essere mafiosi ma non stragisti. Non hanno avuto responsabilità nell’eccidio del giudice Paolo Borsellino e degli agenti di scorta.
L’ingiusta detenzione è stata una parentesi fra un prima, segnato dalla militanza in Cosa nostra certificata da sentenza definitive, e un dopo dove la militanza è solo presunta. Vernengo torna in cella a 52 anni. Ne aveva 40 quando gli investigatori lo scovarono in un’anonima palazzina di Monreale. Figlio di Pietro, soprannominato “u Tistuni”, boss storico della mafia palermitana che agli inizi degli anni ’90 si era reso protagonista di un’incredibile fuga dall’ospedale oncologico di Palermo. Il padre è stato condannato all’ergastolo per omicidio. Il figlio aveva assistito a piede libero a tutto il processo Borsellino bis. Il giorno della sentenza in aula non c’era. Aveva deciso di evitare l’ergastolo fuggendo. Sapeva di essere innocente. Sapeva che il pentito Vincenzo Scarantino aveva raccontato un mucchio di balle quando lo inseriva fra coloro che avevano imbottito di tritolo l’autobomba per via D’Amelio.
Vernengo non è l’unico della vecchia guardia finito di nuovo nei guai. Perché i boss quasi sempre ritornano. Sempre a Santa Maria di Gesù qualche mese fa si erano rifatti vivi Salvatore Profeta e Natale Gambino. E ora rischiano un nuovo ergastolo. Siamo ancora in fase di indagini, ma ci sarebbe la loro macabra regia dietro il delitto organizzato per punire Mirko Sciacchitano. Lo uccisero in una affollatissima strada. Poco prima delle sette di sera, davanti a un’agenzia di scommesse. In azione entrò un gruppo di fuoco impressionante. Aveva 29 anni. Forse ha pagato la colpa di avere accompagnato con il suo scooter un altro figlio di Santa Maria di Gesù, Francesco Urso. Urso aveva deciso di punire Luigi Cona. Credeva di potere fare pesare il suo cognome e la sua parentela con zio Cosimo, Cosimo Vernengo. Anche Cona, però, avrebbe goduto di protezioni importanti. Innanzitutto, quella di Profeta.
Profeta, Vernengo, Urso: cognomi pesanti per farsi la guerra. E così, alla fine, a piangere sono stati i familiari di Mirko che di cognome faceva Sciacchitano. Un cognome che a Santa Maria di Gesù non può fermare una raffica di piombo.