CATANIA – Sentenza di condanna per Salvatore Di Grazia, accusato dell’omicidio della moglie Mariella Cimò e dell’occultamento del cadavere. La Corte d’Assise, presieduta da Rosario Cuteri, ha inflitto una pena di 25 anni di reclusione con l’esclusione dell’aggravante dei futili motivi. Un verdetto che si discosta dalla richiesta di pena all’ergastolo avanzata dal pm Angelo Busacca dopo una lunga requisitoria dove aveva analizzato pezzo per pezzo i 45 indizi che costituivano l’apparato probatorio del processo. Il difensore dell’imputato, l’avvocato Giuseppe Rapisarda, aveva invece evidenziato alla Corte “il mancato approfondimento e l’incompletezza delle indagini” e aveva chiesto l’assoluzione perché il fatto non sussiste. Sarà importante leggere le motivazioni della sentenza che saranno depositate entro un termine di novanta giorni.
Il collegio giudicante ha deciso anche la provvisionale per il risarcimento ai nipoti che si sono costituiti parti civili, 50 mila euro per Umberto Cimò, 30 mila euro ciascuno per Antonio Cicero, Maria Grasso, 20 mila euro per Irene Cicero, 5 mila euro ciascuno a Paolo Ferrara, Fabio Ferrara, Nadia Ferrara, Annalisa Ferrara, Tiziana Ferrara e Carmela Cicero e Maria Cicero. Il collegio delle parti civili è costituito dagli avvocati Michele Pappalardo, Barbara Ronsivalle e Dario Pastore.
Con il verdetto di oggi si chiude il primo capitolo giudiziario di un caso che ha ricevuto l’attenzione mediatica di testate nazionali. Un processo lungo e articolato, con un collegio giudicante che ha guardato con i propri occhi la villa e il giardino dove secondo l’accusa si sarebbero consumati prima la lite e poi il delitto della settantenne Mariella Cimò. Era il 25 agosto 2011 quando la moglie di Salvatore Di Grazia fa perdere le sue tracce.
Questo è stato un processo per omicidio senza un cadavere. Perché mai è stato trovato il corpo della signora bionda che per mesi è stata al centro delle trasmissioni d’inchiesta delle tv nazionali. Nella villa dei coniugi Di Grazia sono arrivati anche gli uomini del Ris con i potenti georadar, ma non è stato trovato nulla. La denuncia il marito la presenta il 5 settembre. Qualcosa sin da subito non convince gli inquirenti che iniziano a investigare, attivando anche precise attività tecniche di intercettazione. Vengono acquisite le immagini di video sorveglianza dei vicini di casa. In quelle immagini si vede Mariella entrare nella villa dove curava i suoi cani (decine di amici a quattro zampe) ma mai uscire. Per gli investigatori è l’indizio da cui partire. Per la difesa non può essere la prova. E si offrono diverse alternative alla possibile via di fuga di Mariella Cimò, che non sarebbero state nell’inquadratura delle telecamere.
Un processo dove si è parlato dell’alcova che Di Grazia avrebbe creato all’autolavaggio di Aci Sant’Antonio. Motivo delle liti con la moglie, che voleva chiudere l’attività per porre fine alle “scappatelle” del marito. Un altro tassello di quell’alterco che sarebbe stato il preludio del delitto.
Si sono susseguiti decine di testi in questi anni di udienze. Nel banco dei testimoni è salito anche Salvatore Di Grazia. Un esame a tratti surreale, ma la personalità e la vivacità dell’imputato hanno fatto da cornice a un dibattimento articolato e increspato di punti interrogativi. Come vuole un giallo del resto.