La chiusura di gruppi e siti sessisti quali “Mia Moglie” e “Phica.eu”, oscurati nelle ultime ore dopo una valanga di denunce, apre un fronte giudiziario che potrebbe avere conseguenze pesanti per chi li gestiva e per chi vi partecipava attivamente.
Le indagini della Polizia Postale hanno già raccolto numerose segnalazioni e materiale probatorio. Le vittime hanno raccontato di essersi trovate esposte a una gogna pubblica con foto e commenti senza alcun consenso.
Insulti sessisti su gruppi e siti, la legge parla chiaro
Dal punto di vista penale, i rischi per gli autori di messaggi denigratori sono significativi. Il primo reato che entra in gioco è la diffamazione. Si tratta però di un illecito che non viene perseguito automaticamente: per avviare un procedimento serve la denuncia della persona offesa.
In altre parole, è la vittima a dover segnalare il fatto alle autorità. Questo dopo essersi resa conto che le proprie immagini accompagnate da commenti offensivi sono state diffuse online.
Quando il quadro diventa più grave, può configurarsi l’accusa di istigazione a delinquere, un reato che invece viene perseguito d’ufficio. Questo riguarda chi, attraverso i propri messaggi, spinge altri a compiere azioni criminali, che vanno dalle minacce fino alla violenza sessuale o alla violenza privata.
C’è poi l’ipotesi del vilipendio verso istituzioni e figure dello Stato, reato emerso di recente quando a finire nel mirino di insulti e contenuti denigratori sono state cariche istituzionali. Il Codice penale prevede pene precise per ciascuna di queste condotte.
Diffamazione, istigazione a delinquere e vilipendio di organi di Stato
L’articolo 595 punisce la diffamazione – soprattutto se aggravata dalla diffusione online – con la reclusione da sei mesi a tre anni oppure con una sanzione pecuniaria. Per procedere, la denuncia deve includere prove concrete come screenshot dei messaggi o dei post incriminati.
L’articolo 414, che disciplina l’istigazione a delinquere, stabilisce pene che vanno da uno a cinque anni di carcere, oltre a una multa di 206 euro, con un aumento della condanna se il reato è commesso tramite strumenti digitali.
Il vilipendio di organi dello Stato, regolato dall’articolo 290, comporta sanzioni fino a 5.000 euro e, nei casi più gravi, anche la reclusione fino a tre anni. Se si tratta di oltraggio a corpi politici, amministrativi o giudiziari, trova applicazione l’articolo 342, che prevede ulteriori pene.
L’intervento della Polizia postale
L’identificazione degli autori di commenti offensivi parte quasi sempre dalla tracciatura degli indirizzi IP, anche quando gli utenti utilizzano pseudonimi o nickname. La Polizia postale, in queste ore, sta già procedendo all’individuazione di numerosi soggetti che verranno denunciati in diverse città italiane.
Il nodo principale, tuttavia, riguarda la collaborazione delle piattaforme: sono infatti gli amministratori a dover fornire i dati utili agli investigatori, e quando i server si trovano all’estero questo processo diventa complesso, soprattutto nei Paesi che non hanno accordi con l’Italia.
Siti sessisti, cosa rischiano i gestori
La questione delle responsabilità dei gestori dei portali resta una delle più delicate. Non esiste ancora una normativa chiara che imponga alle piattaforme, molte delle quali con sede fuori dall’Europa, di rispondere in maniera diretta dei contenuti pubblicati dagli utenti.
Così, le aziende continuano a incassare profitti offrendo servizi ai propri iscritti, ma tendono a prendere le distanze quando emergono casi giudiziari legati a ciò che circola sulle loro pagine. A volte, come accaduto recentemente con “Phica.eu”, i gestori annunciano agli utenti di aver rimosso i materiali contestati.
Molto più spesso, però, i portali situati in giurisdizioni extraeuropee non collaborano con le autorità italiane, rendendo le indagini e l’eventuale repressione dei reati ancora più difficili.
Siti sessisti, si muove il governo: allo studio pene più severe
Nel frattempo, si muove il governo. Dalle opposizioni fino alla maggioranza si moltiplicano le proposte. Tra le misure allo studio: pene più severe per chi diffonde foto senza consenso, l’introduzione dell’identità digitale obbligatoria. Ed ancora il ban per i gestori delle piattaforme e procedure rapide per oscurare i contenuti illegali.
Bernardini de Pace: “Una class action per tutte le donne ferite”
Tutte le “donne che sono state ferite con violenza nella loro identità femminile” possono “partecipare a questa class action” contro le piattaforme sessiste “e noi chiederemo un risarcimento danni per loro a carico di Facebook”, in particolare per quanto riguarda il gruppo ‘Mia moglie’, dove venivano diffuse immagini di mogli e compagne senza consenso. Lo ha annunciato, parlando con l’ANSA, l’avvocata Annamaria Bernardini de Pace, specializzata in diritti di famiglia, chiarendo che, assieme al penalista David Leggi, sta studiando anche il caso del sito Phica.eu, sempre nell’ottica di azioni civili di risarcimento e penali.
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