PALERMO – Storie di vite sognate, di viaggi della speranza in deserti ostili e di mari in tempesta, di dolore, abusi, violenze, disperazione, tradimenti, di ricatti e riscatti.
Hawala, il documentario diretto da Enis Mulè e Sabah Benziadi (nata in Algeria), che sarà presentato in anteprima nazionale con ingresso gratuito, lunedì 29 aprile (ore 20.30), al cinema Gaudium, raccoglie le testimonianze di alcuni migranti africani approdati dopo innumerevoli sventure sulle coste siciliane.
Un lavoro preparatorio lungo e complesso, quello del documentario, che entra dritto nel cuore delle storie, mostrandoci, con una forte dose di coinvolgimento emotivo, quelle voci e quei volti tormentati dal ricordo delle partenze.
Mohamed, Yeyinou, Natacha, Zakaria e Binta sono i protagonisti che hanno voluto rendere noto il loro calvario per denunciare le condizioni inumane legate alla tratta dei migranti. Ognuno di loro ha messo a nudo la propria anima raccontando la loro storia prima di arrivare in Italia, dalla pancia dell’Africa ai Paesi del Maghreb, un cammino pieno di insidie, di brutalità e di promesse mai mantenute.
“Hawala – spiegano i registi – è molto più di un documentario, è una terapia corale, un viaggio profondo nell’animo umano. Inizialmente erano diffidenti, impauriti, alcuni di loro, dopo i primi contatti, hanno deciso di non concedere le interviste che avevamo programmato, altri invece hanno accolto la nostra richiesta come una sorta di liberazione catartica”.
“Queste persone, insieme a molte altre, sono oggi assistite in Italia da organizzazioni che si occupano del loro recupero psico-fisico, ma il percorso subito alla ricerca della libertà continua a far sanguinare le cicatrici”.
Le storie dei protagonisti
Natasha, fugge dai suoi stupratori per raggiungere un luogo sicuro, scopre di essere incinta e di aver trasmesso il virus dell’HIV alla sua bambina; Yeyinou, con una bambina in grembo, figlia di uno stupro di gruppo subito in Tunisia lotta contro i demoni dei soprusi familiari e tentativi di suicidio.
Mohamed, fuggito dall’instabilità politica della Costa D’Avorio, viene nominato tra i responsabili della prigione dopo essere stato lui stesso torturato e detenuto in Libia; Zakaria vive un’odissea di abbandono nel deserto e poi, con altri deportati, riesce a fuggire e a trovare lavoro, picchiato e seviziato perde un occhio.
Il documentario si conclude con la toccante testimonianza di Binta, la ragazza si esprime in mandingo (lingua dell’etnia dell’Africa Occidentale), il suo volto e le sue lacrime trasmettono un dolore universale così forte che non occorrono sottotitoli per comprendere la sua tragedia.