Anche stavolta le stanze potrebbero risultare, alla fine dei giochi, tutte occupate. E così, la solita, vecchia fila potrà solo allungarsi, dietro i cancelli di quei palazzi. I palazzi che attorniano quelli grandi del potere siciliano. Quelli della Regione, dove sembra che, per molti aspetti, tutto debba restare sempre così com’è. Anzi, così com’era.
Premessa. Gli ex lavoratori delle società regionali finite in liquidazione hanno un sacrosanto diritto di lavorare. Detto ciò, va affermato che quel diritto poggia esattamente sugli stessi principi che rendono sacrosanto il diritto di tutti gli altri siciliani ad accedere a un posto di lavoro.
Per farla breve, invece, la norma che il governo ha infilato alla svelta dentro una legge che – lasciamo perdere il buon gusto – istituiva la giornata per il ricordo delle vittime di mafia, rischia di sbattere ancora una volta la porta in faccia a quei siciliani che qualche anno fa hanno mancato il “giro” giusto. Che non hanno voluto o potuto afferrare il treno in tempo. Un treno afferrato da chi, senza un concorso, si è trovato dentro una delle tante società regionali che oggi danno uno stipendio a qualcosa come settemila persone, per un costo di oltre 250 milioni di euro l’anno, un miliardo speso tra un Mondiale di calcio e l’altro.
Ma affermare che qualcuno ha la priorità su qualcun altro, di fronte alla possibilità di accedere a una società a totale o maggioritario capitale pubblico, invece di selezionare attraverso procedure trasparenti ovvero tramite concorsi, come previsto, del resto, dalla normativa nazionale e dallo stesso Def regionale che annuncia l’abolizione del “divieto” delle assunzioni oggi ancora in vigore, è, innanzitutto, un errore politico. È il segno di una mancata occasione. E, in modo speculare, il sintomo di una idea: che tutto deve essere rimesso al suo posto. Così com’era.
Ma l’errore è tutto lì. E si poggia forse sulla convinzione – convintamente affermata per anni su questo giornale – che i cinque anni del governo di centrosinistra a guida Crocetta siano stati dannosi, confusionari, contraddittori. Si badi, però: il vero errore di Crocetta e di chi lo ha sostenuto, in molti (non tutti) i casi, non è stato principalmente quello di “demolire”, di abbattere, di cancellare. Spesso, infatti, le motivazioni alla base – almeno quelle affermate, palesi – erano persino condivisibili. Il vero limite dell’ex governatore è stato quello di non essere stato capace di costruire, dopo aver demolito.
Eppure, sembra essersi fatto strada, tra una strizzata d’occhio e una scelta di comodo, un equivoco: che tutto ciò che è finito, solo perché finito per mano di Crocetta, debba ricominciare. Lo avverti nelle nomine a capo di qualche società partecipata, in quelle dei consulenti annidati nei palazzi, nei movimenti in vista di altre assunzioni e in vista soprattutto di queste. Nelle società regionali, dove il governo ha deciso, per legge, che a lavorare debbano essere solo e sempre le stesse persone scelte, in passato, da qualcun altro, o da loro stessi. Gli altri? Stiano in fila. Arriverà il loro turno, prima o poi.
Un errore politico, si diceva. E un errore doppio, probabilmente. Perché se da un lato il rischio è che passi il messaggio che questa Sicilia non stia cambiando per tutti, ma solo per qualcuno, dall’altro, la norma proposta dal governo Musumeci rischia di illudere anche gli stessi “aspiranti beneficiari”. Cioè quei lavoratori che hanno diritto, finalmente, a un lavoro che non sia più il frutto delle scelte della politica e da queste non dipenda. Quell’emendamento, infatti, che sposta più in là un termine stabilito in una norma nazionale, infatti, è già a rischio impugnativa. A quel punto, la delusione sarà duplice. Per un pezzo di Sicilia. E pure per quell’altro.