I ragazzi dello SPRAR:| “Scappati per salvarci la vita” - Live Sicilia

I ragazzi dello SPRAR:| “Scappati per salvarci la vita”

Dopo l’ennesimo “mantenuti dagli italiani” sentito per strada, i ventidue ospiti del centro hanno risposto pulendo gratuitamente il parco giochi di piazza Aldo Moro. LE FOTO 

BRONTE – “Mi hanno detto che il vestito che indossi te lo ha inviato e cucito tutto tua moglie”. Sorride Sami, china il capo e si nasconde metà del viso con il foulard che porta al collo. Tra l’imbarazzato e il lusingato, il suo è un sorriso che però sa di amaro. E non è strano.

Del resto Sami non vede sua moglie da più di due anni, rimasta in Afghanistan con le due figlie quando lui è dovuto scappare. “Quanti anni hanno?”, quattro e due e mezzo. Non servono grandi calcoli per capire che la più piccola l’ha solo vista nascere. 24 anni, cambia valute nel suo paese, da novembre 2014, e dunque dalla sua inaugurazione, Sami è ospite del centro SPRAR di Bronte (il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, gestito dal consorzio Sol. Calatino).

Due ferite di arma da fuoco alla gamba e una da accoltellamento alla pancia per essersi rifiutato di combattere con i talebani. 15.000 euro pagati a chi “fa affari” sulla pelle dei disperati. Otto stati attraversati a piedi, in autobus e in macchina. Le notti trascorse in “bad place”, a dormire nelle stalle, tra gli animali, con le pecore che per lui sono “beeee” (e si riesce anche a ridere nonostante il racconto). Tutto per avere salva la vita. La sua era un’esistenza normale, una famiglia, un lavoro, fino a che i talebani non gli hanno proposto di “lavorare” per loro.

L’italiano non è fluido (d’altronde fino a cinque mesi fa non lo parlava affatto) e a volte è la coordinatrice del centro, Tiziana Tardo, a venirci in aiuto traducendo in inglese (lingua da lui imparata durante il viaggio), ma altalenando tra un po’ di italiano e un po’ di inglese Sami ci spiega che nel suo paese donne, bambini e anziani non sono in pericolo di vita. A rischio sono infatti solo gli uomini più giovani, costretti dai fondamentalisti islamici ad arruolarsi nelle loro fila per combattere. Il rifiuto equivale a una condanna a morte. Sami però ce l’ha fatta, è riuscito a sopravvivere alle ferite ed è allora che ha deciso di scappare.

Aiutato dal padre che gli ha pagato il viaggio, ha impiegato otto mesi per attraversare Afghanistan, Pakistan, Iran, Turchia e arrivare in Bulgaria, dove è rimasto per altri dieci mesi. Poi il viaggio è ripreso, la meta l’Italia, ed è stata la volta di Romania, Serbia, Ungheria e Austria. Suo cugino (ma sono tanti, troppi) invece non ce l’ha fatta. Lo sguardo si abbassa, il tono diventa più grave: è stato ucciso appena tre mesi fa. Il motivo lo stesso che ha fatto fuggire Sami.

“Grazie tutti Italia, buone persone Italia. Io piace”. E a piacergli sono soprattutto la libertà e la pace che nel suo paese mancano. Il suo sogno è ora di trovare un lavoro, qui o da qualsiasi altra parte, per poter fare andare via dall’Afghanistan sua moglie e le sue figlie. Con lui nel centro altri ventuno ospiti. “La struttura è piena in questo momento” ci dice Tiziana. Troviamo infatti un iraniano, tre pakistani, sedici afghani e due gambiani (gli ultimi ad essere arrivati e anche i più giovani, 18 anni appena compiuti, ma del resto l’età media si aggira intorno ai 22 anni). Tutti hanno lasciato le loro famiglie, molti le mogli e i figli. Dopo aver salutato Sami con un in bocca al lupo, chiedo di poter parlare con qualcun altro che conosce meglio l’italiano.

Stavolta dalla porta entra Adnan. A colpire sin da subito è la sua solarità. Pakistano, 27 anni, da un anno in Italia, da novembre ospite nel centro di Bronte. Nella sua terra ha lasciato la madre, una sorella e due fratelli. Accanto a me c’è sempre Tiziana, le sue traduzioni ci aiutano a capirci meglio. Adnan scherza, ci fa ridere mentre ripensa al suo arrivo in Italia, a Brindisi, quando gli hanno chiesto nome e cognome. “Da noi no si usa cognome, solo nome” spiega, così, vista la necessità, si è dovuto ribattezzare Adnan Adnan. “Stesso nome, stesso cognome” ride. Il sorriso non si spegne, ma si colora di ironia, quando gli chiedo com’è stato il viaggio. “Facile, troppo facile” risponde e ride.

A differenza di Sami lui ha scelto la via più breve per arrivare in Italia. Un mese e mezzo per attraversare a piedi e in macchina Iran, Turchia e Grecia, da dove ha poi preso la nave alla volta di Brindisi. 12000 dollari il costo totale pagato per abbandonare la sua vita, per dormire nei boschi, all’aperto, per avere un pasto da chi, intento solo a fare soldi, di loro (35 nel gruppo) non si curava affatto (e mimando la consegna dei pasti i gesti sono di sprezzo). Sorride anche quando racconta del suo piccolo negozio di alimentari, ereditato dal padre morto di malattia, che i talebani hanno bruciato dopo quattro mesi dalla sua partenza, per punirlo del suo rifiuto di combattere con e per loro.

Cosa ti manca di più del tuo paese?

“La mia vita, mia mamma, però non è pace. Mi piace mia vita in pace sempre, non piace guerra e uccidere persone”. Adnan vorrebbe rimanere proprio a Bronte, vorrebbe trovare un lavoro e farsi una famiglia. Si trova bene nel piccolo paese, anche le persone sono “bravi”. Una pausa, ride ancora una volta con fare ironico e aggiunge “però ieri…”.

Ieri si riferisce a lunedì 27, quando di mattina, armati di sacchi neri e decespugliatori (tutto fornito dal Comune), i ventidue ospiti del centro sono andati in piazza Aldo Moro per pulire gratuitamente da erbacce e spazzatura la villetta con i giochi per i bambini. Un’iniziativa che loro stessi hanno proposto alla loro coordinatrice con l’intento di rispondere con i fatti al “mantenuti dagli italiani” che spesso gli viene rivolto per strada, dando così alla cittadinanza una prova tangibile della loro buona volontà. Eppure anche in questo caso, racconta Adnan, non è mancato chi, disoccupato, insieme con la moglie, si è avvicinato per urlargli contro che non era giusto che loro avessero un lavoro. A nulla è valso dire che la pulizia era fatta a titolo gratuito. E sentendo i commercianti della zona, si capisce il motivo alla base di una protesta che non si spegne neanche se messa di fronte alla gratuità del gesto.

Anche questi infatti, seppur apprezzando l’iniziativa e il lavoro svolto dai ragazzi dello SPRAR, contestano non tanto uomini che scappano dai loro paesi a causa della guerra o della povertà, quanto un sistema che non pensa “al padre di famiglia italiano disoccupato” ma che invece agli “stranieri” garantisce vitto e alloggio e un inserimento nel mondo del lavoro e nella società.

Il centro è nato con non poche difficoltà, racconta Tiziana. Nei due mesi prima dell’apertura, i vicini si appostavano davanti al cancello pur di non fare proseguire i lavori. Le motivazioni addotte erano le più diverse “adesso i bambini non possono più giocare fuori; chiudi la porta di emergenza perché di sera mi spavento; e se si rubano i bambini; e se hanno malattie”. Oggi, continua la coordinatrice, i rapporti sono molto più distesi, chi all’inizio era in prima linea contro l’apertura dello SPRAR ora ha addirittura fatto amicizia con gli ospiti. “Quando ho visto questo, ho pensato di aver raggiunto l’obiettivo” dice soddisfatta Tiziana. Eppure non mancano le occhiate di diffidenza mentre camminano per strada, le frasi gridate o sussurrate. E non tutti riescono a fare finta di niente, alcuni preferiscono addirittura non uscire, confessa Tiziana.

Ma tra di loro il desiderio di integrazione è forte sia fuori che dentro le mura del centro. Uomini fino a poco tempo fa estranei gli uni agli altri che, trovatisi per caso a condividere la stessa casa, accomunati dalle stesse storie, lontani dalle proprie famiglie sono diventati essi stessi famiglia. E te ne accorgi quando, entrando nell’astanteria del pronto soccorso, trovi uno di loro sdraiato sul lettino, accanto a lui un operatore del centro.

E all’improvviso li vedi arrivare tutti (o quasi) insieme. L’astanteria che diventa allora troppo stretta, l’infermiere che li invita a uscire perché sono in troppi, loro che rispondono “poco, poco”. E poche sono infatti le parole scambiate, la stanza deve essere lasciata libera. Li guardi allontanarsi. Del resto non possono stare tutti dentro. Eppure dopo un’ora li trovi ancora lì, non sono andati via. Sono rimasti lì, in corridoio, ad aspettare.

 


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