I Rappa tra confisca e dissequestri| Le motivazioni del processo

I Rappa tra confisca e dissequestri| Le motivazioni del processo

Palazzo Benso a Palermo

Le figure chiave sono Vincenzo e Filippo. Uno sterminato patrimonio immobiliare resta allo Stato

PALERMO – È sulla figura di Vincenzo e Filippo Rappa che ruotava principalmente il procedimento patrimoniale. Padre e figlio erano già stati processati insieme in sede penale. Il primo era stato condannato per mafia e il secondo assolto. Una sorte processuale opposta che ha finito per pesare, a distanza di anni, anche sulle misure di prevenzione. Così come ha pesato la recente giurisprudenza della Cassazione sulla necessità che la pericolosità sociale sia attuale (è una delle condizioni necessarie affinché sia decisa una misura di prevenzione) e sulla cosiddetta “perimetrazione della prova”.

I supremi giudici hanno più volte sottolineato la differenza di trattamento tra pericolosità generica (che richiede una maggiore perimetrazione della prova) e pericolosità “qualificata” che consente un’applicazione più estesa del codice antimafia. Anche per quest’ultimo caso, tuttavia, l’accusa deve dimostrare se la pericolosità caratterizza “l’intero percorso esistenziale” del proposto o solo una parte della sua vita.

Il risultato è che la sezione Misure di prevenzione del Tribunale presieduta da Raffaele Malizia (a latere Luigi Petrucci e Giovanni Francolini) ha confiscato le società e lo sterminato patrimonio immobiliare del padre, oggi deceduto, e restituito i beni di Filippo e dei suoi figli Vincenzo Corrado e Gabriele, assistiti dagli avvocati Giovanni Di Benedetto, Raffaele Bonsignore e Giuseppe Oddo. Così come sono stati dissequestrati i beni degli altri eredi Sergio Rappa, Vincenzo Rappa (classe 1975) e Maurizio Rappa assistiti dagli avvocati Mauro Torti, Valentina Castellucci, Corrado Nicolaci e Rosalba Di Gregorio.

Nel caso dei Rappa si è ripetuto con le inevitabili differenze quanto già accaduto in altre misure di prevenzione. Nei fatti le norme, che per anni sono apparse un modello virtuoso seppure recentemente travolto dagli scandali, sono state ampiamente superate. Ciò impone alla Procura della Repubblica, alle Questure e alla Dia di cambiare il modo di contrastare e proporre le misure di prevenzione contro quella che un tempo veniva definita la “borghesia mafiosa”. Un tempo, appunto, oggi le cose sono cambiate del tutto.

Da qui la differenza fra Vincenzo Rappa, condannato per mafia e il figlio Filippo, nel cui passato ci sono dei precedenti per violazioni delle norme in tema di propaganda elettorale, omesso versamento delle ritenute previdenziali e bancarotta fraudolenta. Tutte questioni per le quali non è stata superata la soglia di punibilità  oppure è stata dichiarata estinta la pena e ogni altro effetto penale.

La grana principale è stato il processo per mafia che ha condiviso con il padre e nel quale è stato assolto già in primo grado. Il processo in sede di Misure di prevenzione, però, segue una strada diversa e così i giudici hanno valutato la sua eventuale partecipazione al sistema di illecita aggiudicazione degli appalti gestito da Angelo Siino e di cui il padre Vincenzo ha certamente fatto parte.

Fu Salvatore Lanzalaco a raccontare che, alla fine degli anni ’80, i Rappa, padre e e figlio, chiesero a Salvo Lima di potere partecipare al cosiddetto “patto del tavolino”. Avrebbero conosciuto Angelo Siino e Giovanni Brusca, e ottenuto degli appalti con la Lambertini spa. Siino, però, riferì di avere sfruttato la conoscenza di Filippo Rappa per acquisire informazioni sulle gare d’appalto affinché altre imprese formulassero offerte più basse. Il “ministro dei lavori pubblici” della mafia spiegò che aveva “tenuto sulla corda Filippo Rappa in attesa di un turno nell’aggiudicazione che in realtà non avvenne mai”. Neppure Brusca ha saputo aggiungere particolari decisivi al racconto generico di Lanzalaco. Insomma, dagli elementi raccolti non si può dire che Filippo Rappa abbia dato un contribuito a Cosa nostra, piuttosto “si può affermare soltanto la collateralità” che non basta a sequestrargli i beni.

“Né – dicono i giudici – si può considerare (Filippo Rappa, ndr) una persona che vive abitualmente con i proventi di attività delittuosa del padre”. Socialmente pericolosi non lo sono neppure Gabriele e Vincenzo Corrado. Per quest’ultimo la Procura ipotizzava la pericolosità sociale sull’accusa di essersi appropriato di soldi della Nuova Sport Car (c’è un inchiesta ed è scattato anche un sequestro annullato dal Riesame) e sull’appropriazione di un quadro di De Chirico intestato a una società del Gruppo. Troppo poco per definirlo socialmente pericoloso.

Socialmente pericoloso è stato certamente Vincenzo Rappa: da vittima del pizzo “che per operare nell’edilizia ha dovuto soggiacere alle indebite pretese del sodalizio mafioso” è divenuto il costruttore di riferimento dei boss: “Ha intrattenuto rapporti di stretta fiducia con i Ganci, i Madonia e i Galatolo” che lo hanno “preferito ad altri imprenditori perché era un soggetto affidabile e disponibile”. Da qui la confisca di centinaia di immobili, compresi palazzi storici e ville, che valgono forse la fetta più consistente dei 400 milioni di euro. È questa la stima totale del patrimonio Rappa.

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