PALERMO- “Concetta sorrideva sempre, qualunque fosse la tempesta in arrivo. La ricordo così, con la sua capacità di scoprire il lato bello delle cose, di cogliere il sole ovunque”. Concetta Traina – assassinata a San Giovanni Gemini con sua madre, Angelina Reina, dall’ex fidanzato, Mirko Lena – camminava con passo lieve. Con leggerezza percorreva la sua strada, nonostante i pesi.
Da bambina, colpita dalla tragedia insieme al fratello Vincenzo, aveva perso il padre. Era un falegname, il sostegno di una famiglia costretta a tirare avanti con rinunce e dignità, dopo la sua morte. La storia la racconta un’amica, che preferisce svelare la bellezza e il dolore di Cettina, protetta dalla privacy.
Si comincia dall’ultima tappa. Dal dolore. Dall’autopsia che ha radiografato l’esplosione di una violenza senza pietà. La ventisettenne innamorata delle persone e dei suoi studi di filosofia, è stata picchiata selvaggiamente, strangolata a mani nude. Sul muro di casa, sulla scena del delitto, secondo le cronache, l’assassino ha scritto: “E’ finito il buio”. Poi si è impiccato.
Ma la voce narrante abbandona subito l’orrore, per rifugiarsi nella tenerezza: “Ci siamo conosciute da ragazze. Lei aveva sedici anni. Era intelligente, affamata di amore e di cultura. Aveva perso il padre e si arrangiava con grande coraggio, perché non è mai facile tirare avanti senza un papà che porta i soldi. Con Cettina si poteva parlare di tutto: di filosofia, di storia, di letteratura, di relazioni umane, di consigli. Era saggia e accogliente, faceva in modo che chiunque fosse a suo agio con lei”.
Gocce di profondità diffuse, anche nel profilo Facebook, nella poetica descrizione del laccio, per esempio. Scriveva Concetta: “Ecco, provate adesso a calarvi nel mondo, provate a considerare l’intima essenza d’un laccio. Usate la fantasia miei prodi eroi, animate il tutto. Provate adesso a vedere in quel laccio la singolarità dell’umana esistenza, consideratela nella sua inestricabile adesione ad un altro laccio. Ebbene, avete appena assistito al nascere della relazione, col mondo , con le cose, con gli altri esseri…”.
“Ci eravamo perse di vista – continua la voce narrante – e ritrovate da più grandi. Io davo lezioni private. Lei pure. Ci confrontavamo sul metodo, sui contenuti. Concetta si donava ai più deboli. Aveva un bambino disabile tra i suoi allievi. Si dedicava a lui interamente, senza riserve. Nonostante gli scarsi mezzi, aveva una volontà di ferro. La laurea in filosofia col massimo dei voti lo dimostra. Era buona, forse perfino troppo. Aveva l’animo della crocerossina”.
Qui la voce trema, prima di ripartire: “Mirko era, per quanto ne so, un ragazzo intelligentissimo e tormentato, con un suo spirito sensibile all’eccesso. Lei si era legata a lui per affetto e, forse, perché voleva guarirlo dall’inquietudine. Lui non aveva accettato, da un mese, la fine del loro rapporto. Non si dava pace, così si dice in giro”. Alla voce se ne sovrappongono altre, chiacchiere di San Giovanni Gemini ancora da verificare. Raccontano di Mirko e dei suoi gesti di rabbia, di frasi minacciose e sguardi ostili. Dicono che Concetta avesse paura e che si fosse barricata in casa. Una porta finestra non irresistibile sarebbe stata l’anello debole dell’assedio. “Sono storie che ho sentito anche io in paese – conferma colei che narra – non so che peso dare. Preferisco ricordare il sorriso di Concetta. Ho nelle orecchie la sua voce fresca, il suo modo gentile di porsi. Non dormo più, non posso dormire. Perché vanno sempre via le persone bellissime?”.
Punto interrogativo inemendabile. Nemmeno nei libri c’è una risposta. Concetta amava i libri. Scriveva nel suo diario su Facebook: “Sto soltanto leggendo-studiando mentre aspetto posteggiata in macchina. Eppure la gente mi lancia occhiatacce malefiche. Forse perché non hanno mai visto un libro loro. Se stessi a sfumacchiare con lo smartphone in mano tutto ok, ma la vista di una che legge desta preoccupazione. San Giovanni Gemini città del formaggio”.
E ancora: “Quando ero bambina ed ero infelice, brutta ed estranea alle consuete dinamiche infantili, elaboravo una strategia: uscivo dal mio io, ed entravo in un altro io, magari in quello della bambina più bella e fortunata e così stabilivo con quella mia fantasia una totale compartecipazione empatica. Difficile da spiegare. Però già avvertivo l’unità delle cose, l’umanità come un unico grande essere, per cui non aveva senso dolermi delle mie sventure, perché a conti fatti, per niente differivano dalle maggiori fortune. Ero capace di vedere il Tutto. Ero una strana bambina”.
‘Strana’, scriveva di sé Concetta Traina, massacrata per qualcosa che non poteva essere amore. ‘Strana’, scriveva. Come chi non sa riconoscere la bellezza di cui è purissimo riflesso.