Quel giorno squillò il telefono. Una voce disse: “Guarda che è caduto un aereo”. Sembrava l’incipit del film “Il muro di gomma”. Era la tragedia dell’Atr 72. I giornalisti sono esseri strani. Mentre gli altri piangono o soffrono, vengono presi da uno stato di febbrile eccitazione. La redazione si incendiò. “Tu vai al porto, tu vai a Punta Raisi, tu cerca di salire su una motovedetta…”. C’era caldo. Le telefonate precipitavano una addosso all’altra. Il primo viaggio fu verso il mare.
Sulla banchina del porto le ambulanze friggevano contro il sole e caricavano feriti. Il professore Mario Re, capo del 118, non sapeva chi rianimare per primo. Un cronista si travestì da soccorritore. Salì su un’ambulanza e sparì dentro il suo ululato. Un altro era appena tornato da un giro in motovedetta. Scese dalla barca. Sussurrò: “Ho visto i corpi a pelo d’acqua”. Poi cominciò a vomitare, non si sa se per il mal di mare o per il mal d’anima. Le immagini in tv furono chiarissime. Poveri corpi sfasciati tra le onde, violati nella loro intimità. Poveri panni gonfi di sale. Povere cose. Poveri destini.
Alla rianimazione del Civico un vecchietto rantolava con una crisi d’asma, ma non c’entrava col disastro. Un infermiere – l’ultimo rimasto – tentava di prestargli soccorso. Le barelle entravano e uscivano. La dottoressa che stava lavorando a ritmi di pizzeria, tra cuciture e gessi, uscì dalla sala delle medicazioni con un gesto di sconforto: “Dio mio, sono tanti, sono tanti”. Portarono una delle hostess, con un grosso collare. Si intravedeva soltanto una bella faccia sotto il gonfiore del trauma e i capelli biondi sparsi sul cuscino, accanto a piccoli grumi di sangue. I parenti cominciavano il viaggio in quelle ore. La Via Crucis.
Al pronto soccorso di Villa Sofia una signora si lamentava. Aveva una lieve lussazione al braccio e nessuno le dava retta: “Sì – strillava – capisco che è caduto un aereo”. No, non capiva. La caduta di un aereo è come un terremoto. Una fatalità che pare apparentata con la fine del mondo. Era un viavai di mascherine a Villa Sofia. Ma non c’era il tempo di contarle tutte. Era necessario tornare in redazione e scrivere. Le parole correvano sulla carta dei quotidiani, nelle tv, via radio. E i cronisti che ne erano detentori conservavano un angolo di pena nel cuore. Però non si poteva dire. Non è professionale dire che stai male, quando racconti il dolore. I colleghi più giovani piangevano, credendo di non essere visti.
Un anno dopo la Marina organizzò una cerimonia per l’anniversario. I parenti delle vittime furono caricati su due motovedette. Qualcuno svenne per l’emozione. C’era mare grosso e non fu possibile arrivare fino al punto preciso della sciagura. Ma una donna disse che non importava. Aveva perso sua figlia e, tra le lacrime, disse che il mare era tutto uguale e che sua figlia ormai faceva parte del mare. Poi si avvicinò al parapetto e lasciò cadere un mazzo di fiori bianchi.