Le “case dei fantasmi” sono stabilimenti industriali ai bordi delle strade e alle periferie delle città siciliane. Sorgono in mezzo al nulla o accanto a palazzi nuovissimi, circondate dal verde o ai margini di centri commerciali. Sono inserite nel paesaggio da talmente tanto tempo che ci siamo abituati alla loro presenza. Spesso sono abbandonate e ci chiediamo cosa siano state e quale sarà il loro destino, mentre a volte vivono ancora, ma nascondono storie del passato che aspettano di essere raccontate. La puntata precedente parlava dello stabilimento Dagnino di Palermo e della sua speranza di progresso tradita. La seconda puntata è su un luogo rifiutato da tutti, persino dallo stesso quartiere in cui si trova, e sulle persone che a volte si rifugiano tra le sue mura.
I capannoni sono a due passi dal centro commerciale, si raggiungono uscendo dal parcheggio e imboccando una stretta via ingombra di immondizia. Oppure ci si può avventurare tra i padiglioni dello Zen e, sotto l’attenta sorveglianza dei suoi abitanti, arrivare alle spalle del piccolo complesso industriale abbandonato. La fabbrica della Siciliana Cellophane è all’intersezione tra i due luoghi, il quartiere e il centro commerciale, ma è isolata da entrambi. Tutti possono vederla e tutti fanno in modo di evitarla, come se fosse un corpo estraneo.
Qui una volta si producevano sacchetti di plastica. Lo stabilimento faceva parte del tessuto industriale della zona di Partanna Mondello, lo stesso a cui appartenevano il cotonificio siciliano e la fabbrica della Coca cola, ormai dismessi. Sorgeva in mezzo alla Piana dei Colli, in cui nel Settecento i nobili siciliani venivano a costruire le proprie ville e che a metà del secolo scorso fu raggiunta dal cemento della città. La progettazione dello Zen risale ad allora, quando si decise di ricoprire la piana di alloggi popolari, e i due capannoni della Siciliana Cellophane erano già lì. Ospiti indesiderati, dato che nel disegnare il quartiere gli architetti non conoscevano la loro esistenza e dovettero costruirci intorno, cambiando in corso d’opera il progetto. Se si guarda la mappa dello Zen, infatti, si vede una serie di lunghe file tutte uguali di palazzi, e solo quella a ridosso dello stabilimento si interrompe a metà.
Dopo la costruzione del quartiere la storia della fabbrica si fa confusa. I terreni, ricoperti di lastre di amianto e copertoni, risultano ancora intestati alla Siciliana Cellophane, mentre la proprietà dei capannoni è sconosciuta. Quando si chiede agli abitanti dello Zen se ne sappiano qualcosa, dicono che li ha in gestione qualcuno che vive nelle vicinanze, ma nessuno sa indicare esattamente chi. Anche cercando di scavare nel passato le cose non migliorano. Nessuno ha mai visto in funzione la fabbrica, e gli unici episodi a cui è collegata, nella memoria del quartiere, sono gli incendi che periodicamente vengono appiccati all’immondizia accumulata e, soprattutto, il caso della ragazza che nella Pasqua del 2013 venne trovata impiccata a una delle finestre. Le inchieste accertarono che era una tossicodipendente arrivata in autobus da Trabia.
Che lì dentro vadano i tossicodipendenti non è un mistero, ed è uno dei motivi per cui nel quartiere sconsigliano di andarci. Troppe siringhe. È il rifugio di chi arriva allo Zen per comprare la droga e non ha niente, né una casa né un’auto per andare via. Si avventurano in mezzo ai rifiuti e ai vetri rotti delle finestre ed entrano negli stanzoni distrutti.
Qualcuno usa la recinzione dei vecchi capannoni come deposito per cassette di legno, ammassate tra l’entrata principale e il cancello. C’è persino una catena con un lucchetto. Ma la Siciliana Cellophane rimane un ghetto dentro un ghetto. Attaccata a un tempio del consumo, è incastrata nell’angolo più abbandonato di Palermo e al suo interno si accumulano quelle che il mondo considera scorie, ma sono in realtà le storie degli ultimi: di un’industria, di un quartiere, dei suoi abitanti e dei disperati che neanche qui, nonostante le mura diroccate, riescono a trovare riparo.