Praticamente quasi tutto da Roma in su. Nel governo di unità nazionale chiamato a rimettere in piedi il Paese non ci sono siciliani. Un dato in controtendenza. Nella compagine gloriosa che dovrà costruire sulle macerie del post-berlusconismo, non ce n’è uno che parli palermitano, catanese, messinese, siracusano. Non c’è il dialetto di Lentini. Mancano gli avverbi di Siculiana. Cercate un carrapipano? Invano. Non c’è.
Sarebbe comodo adesso impugnare la Durlindana del regionalismo e protestare perchè nessun isolano è stato convocato in Nazionale. Sarebbe più semplice lanciare strali contro l’austera figura del professore Monti, secondo l’abusata tiritera: la pistola fumante dei banchieri, il manutengolo delle corporazioni fortissime, il cavallo di Troia di coloro che vorrebbero l’Italia in schiavitù (ma in ceppi siamo bravissimi a metterci da soli).
Purtroppo il pane duro della cronaca indica una cruda verità complicata da masticare. Non esistono uomini pubblici siciliani all’altezza del gravoso compito che attende l’esecutivo. E – aggiungiamo noi – latitano non tanto gli arguti censori, i servi utili o i tecnocrati competenti. Non ci sono persone che abbiano manifestato il dono di una visione condivisa, densa di sacrifici. Emerge, di riflesso, l’immagine di un potentato siculo bravissimo a farsi i fatti propri, ad amministrare i regni fin qui incontestati. E neanche un ammiraglio con il coraggio del mare aperto. Oggi l’Italia fa a meno di noi siciliani. Ma è soprattutto colpa nostra.