CATANIA. Si racconta di un critico letterario, convinto sostenitore della superiorità de La Gerusalemme Liberata su L’Orlando Furioso. Per sostenere tale convinzione, si batté in duello numerose volte. Infine, dopo l’ennesima sfida, cadde trafitto dalla lama di un avversario. Agli amici che, afflittissimi, si precipitavano per soccorrerlo, disse con un filo di voce: E pensare che io non ho mai letto né l’Orlando Furioso, né La Gerusalemme Liberata! Non vorrei che la storiella, vecchia di cent’anni, fosse applicabile a taluno dei protagonisti delle polemiche, fiorite in questi giorni, sulla compatibilità del cd. maxiprocesso, o del regime detentivo del 41 bis O.P., con i nostri principi costituzionali. E che discetta di garanzie individuali, rispetto del principio di non colpevolezza e accertamento della verità, ovvero di umanità del trattamento penitenziario senza aver mai messo piede in un’aula giudiziaria nella quale si celebra uno di questi ‘obbrobri’.
Ma il maxiprocesso e il 41 bis sono degli obbrobri o, piuttosto, necessità ineludibili? Cominciamo col dire che si intende per maxiprocesso una vicenda giudiziaria nella quale si prendono simultaneamente in esame le condotte (perché sempre di condotte, di attività materiali, insomma, si parla nel processo penale) di numerosi soggetti, tra loro collegate perché poste in essere in concorso o comunque nel quadro di una medesima, comune, programmazione delittuosa. Il maxiprocesso doverosamente riflette, dunque, le caratteristiche dei gruppi criminali organizzati, e giudica i fatti delittuosi dovuti all’attuazione degli scopi del sodalizio o la stessa appartenenza a questo. E per accertare l’esistenza dell’associazione di tipo mafioso, distinguendo le responsabilità dei boss da quelle dei semplici affiliati, occorre indagare, oltre che su concreti fatti di sangue o di sopraffazione, su centinaia di episodi tra loro apparentemente slegati (operazioni bancarie, traffico di droga, usura, connivenza di uomini delle istituzioni), facendo luce su un mondo di cui non sono palesi struttura, ramificazioni e dimensioni. Non si possono processare a pezzi e a bocconi gli appartenenti ad una associazione con centinaia di adepti, pena lo smarrimento del quadro d’insieme che solo può offrire una corretta chiave di lettura dei fatti.
In anni ormai non vicini, né (giudiziariamente) felici nella memoria, chi scrive ha avuto l’occasione di istruire e poi prendere parte a una ventina di maxiprocessi, i cui dibattimenti si celebrarono dinanzi a Corti guidate da magistrati di altissimo e indiscusso profilo umano e professionale: ricorderò qui per brevità, scusandomi con i numerosi altri colleghi che hanno operato sul campo, i Presidenti Curasì, Licciardello e Virardi. Quei giudizi – che pure riguardavano decine e a volte centinaia di imputati – sono stati sempre condotti con il sacrificio delle personali esigenze dei giudici e delle parti, ma sempre senza trascurare il necessario approfondimento volto ad accertare, nel rispetto assoluto delle regole, le responsabilità dei singoli, e prova ne furono le non infrequenti assoluzioni decretate dalle Corti. Per la mia esperienza, è non solo ingeneroso, è ingiusto dire dunque che con i maxiprocessi si limitarono – per la specificità della stagione – diritti e garanzie processuali elementari, laddove invece i protagonisti di quegli anni – e per primi gli avvocati – possono confermare che quei Giudici decidevano caricandosi sulle spalle, sino allo scrupolo e all’angoscia, il peso delle loro valutazioni.
Quanto al regime detentivo speciale, esso non è una pena supplementare, né una surrettizia forma di tortura per spingere alla collaborazione. Semplicemente, ci si è resi conto da molti anni che la restrizione in carcere non allenta il rapporto tra il capomafia e il clan, che spesso continua a comandare dalla reclusione, impartendo ordini di gestione, quando non mandati ad uccidere sussurrati di tra le sbarre. Di qui l’esigenza di impedire questi rapporti, disarticolando quei mortiferi legami tra chi comanda (libero o detenuto che sia) e chi esegue.
Quello che va invece fermamente respinto è il garantismo per tornaconto, che pure come un fiume carsico periodicamente riaffiora in certe speculazioni, che vorrebbe smantellare un sistema di difesa collaudato e validato dalla Corte costituzionale (del quale legislazione sui pentiti e 41 bis sono parte), magari approfittando del fuoco delle polemiche, e col pretesto che, a trent’anni dalle stragi, la situazione è cambiata e l’emergenza è finita. La mafia non è un problema esclusivamente di ordine pubblico, non è pericolosa soltanto quando adotta strategie sanguinarie, mentre può essere accettata quando si inabissa. La specificità della mafia – riconosciuta dalla Consulta – rispetto a ogni altra organizzazione criminale si fonda proprio sulla specificità dei suoi legami con esponenti della politica, della società e delle istituzioni: sulla sua straordinaria capacità di condizionamento che di un’associazione criminale ha fatto un vero e proprio sistema di potere.
(Francesco Puleio, Procuratore aggiunto della Repubblica di Catania)