“In questi casi non resta per pregare, almeno se sei credente. E io lo sono. Ho pregato davanti al corpicino della neonata annegata”. Il dottore Francesco D’Arca, responsabile del poliambulatorio di Lampedusa, è stremato. Come i colleghi che hanno condiviso con lui il flusso inarrestabile degli sbarchi. Come tutti quelli che si sono trovati nella trincea. E hanno cercato di svuotare il secchiello del dolore con mani cariche di umanità.
Chi vive laggiù, nelle ore più drammatiche, affronta le sue giornate alla stregua di una missione difficilissima. E come potrai dimenticare, anche se indossi un camice bianco e fai il tuo lavoro, una bambina che è partita da una speranza cucita da altri, alla stregua di un vestito colorato, per approdare alla sua morte?
“Sono stato io a compiere l’ispezione sanitaria sul cadavere della piccola annegata – spiega il dottore D’Arca –. Una creaturina di cinque mesi, una femminuccia, lo dico con molto affetto. Ne ho viste purtroppo tante di situazioni così, di bambini morti, di tragedie. Vieni colpito ogni volta, come se facessero parte della tua famiglia. Qui tutti si sono dati da fare, al massimo, senza lamentele, senza defezioni, nell’isola. Ho visto un grandissimo impegno nelle forze dell’ordine e nei semplici cittadini. Nessuno si è tirato indietro. A noi del poliambulatorio spetta il triage, la prima accoglienza sul molto Favaloro. Ieri, sul molo, non si poteva quasi camminare”.
Sono attimi di relativa calma, in questo giovedì mattina, dopo l’onda di piena dei corpi, dei morti e dei vivi. “Vedremo nelle prossime ore – dice Francesco, il medico -. Le ultime cinquantasei ore sono state le più pesanti che abbiamo vissuto, per la contemporaneità degli sbarchi. Per fortuna, siamo strutturati. Ieri, c’è stato un parto…”. Un vita che nasce, per una vita che muore. Ma non funziona così. Il sorriso di un bambino che viene al mondo nella tempesta è una benedizione che non anestetizza il dolore.