Il pezzo - Live Sicilia

Il pezzo

Il bancone del rosticciere a quell’ora è colmo. È ancora presto. E si trova di tutto. Arancine, pizzette, calzoni, spedini rollò ravazzate. E all’interno di quest’ ultimo gruppo, le variabili si moltiplicano come i sentieri di Borges: prosciutto e mozzarella, prosciutto mozzarella e funghi, prosciutto mozzarella e “besciamella”. E senza funghi. E senza prosciutto ma con gli spinaci. E con tutto quello che desideri, sogni, immagini. Tutto. Accomunato in una parola. Che ne svela subito la contraddizione. Perché la totalità presente sul bancone del rosticciere viene chiamata “pezzo”. Ecco. Il “pezzo”, lì dentro, dove una zaffata d’olio fritto si posa sugli avventori come un soprabito calato dall’ alto, è il “tutto”. Quella parola, poi, per uno che vive di quello che qualcuno definì “il mestiere di scrivere” (figliuolo meno nobile del mestiere di vivere che fu di Pavese), ha una valenza in più. La sua semantica s’estende oltre i normali confini. Perché il pezzo è anche un articolo. Che poi, nella maggior parte dei casi è solo il modo migliore per far spuntare il proprio nome sul giornale senza la necessità di farsi arrestare.  Il pezzo è tutto per il povero giornalista. Il pezzo è “il tutto”, dentro la rosticceria. Ma è pur sempre pezzo. È sempre un aspetto del tutto. È una possibilità. È un’opzione. Spinaci o carne, funghi o melanzane fritte. Il pezzo ti sfida. A scegliere. E quando il bancone è pieno, come accade nelle prime ore della sera, è una scelta difficile. Perché esclude tutto il resto. Gli altri pezzi. Un “pezzo” è un inizio che prepara una fine. È il primo passo. E appena fatto, ti accorgi che la sera sta già andando via. E con essa i pezzi. Che cominciano a svuotare il bancone. A quell’ora, a una certa ora che non ricordo più, quelli con la “besciamella” erano già terminati. Per quella sera non se ne mangeranno. Si sceglierà qualcos’altro.
Mi sorpresi in questi pensieri, nel luogo e nel momento meno vicino a quello immaginato. In un dormiveglia pomeridiano indotto dalla stanchezza. Dal sole. Da quella mollezza d’animo che affiora in qualche canzone di Battiato. Da quella penombra di serrande socchiuse che accarezza la testa. Quella testa che si svuota, come un pallone bucato. E il pensiero, etereo ed erosivo, abdica alla biologia dell’animale. Ma non del tutto. Perché ancora un po’ d’aria, nel pallone, c’è. Quel pensiero non è andato via. Resta rannicchiato in un angolo. A giocare sottovoce, mentre il determinismo della natura s’è impossessato della stanza. Il pensiero è lì, sotto il tavolo, tra le sedie. E con la sfrontatezza che è solo dei bambini, ogni tanto urla, fa cascare qualcosa, fugge e dice “prendimi prendimi”, alla natura appesantita dalle leggi della fisica.
Lì, sulla scia di una di quelle fughe si è materializzato “il pezzo”. E me lo immagino tra le fauci di un ubriaco vestito bene. Dopo quattro cocktail dai nomi stranieri. Il bancone comincia a svuotarsi. Sempre di più. Mentre le note e i rumori (che sempre note sono), rimbalzano tra i muri di cemento, alzano calcinacci, fanno vibrare le lamiere e il vetro dei bicchieri.
E vanno a riunirsi da qualche parte. Se è vero che il rumore è onda. Quindi materia. Che non si distrugge ma si trasforma. In cosa? In presagi? Speranze?. La notte affonda, sempre più nera e sempre più sfocata tra il wiskhy calato giù in cicchetti da sbattere su un bancone di legno e la birra fredda in bicchieri di plastica, bevuti passeggiando tra una strada che, chissà perché, richiama lo champagne.
I pezzi, intanto, sono quasi terminati.
Quelli salati, almeno. Qualche pizzetta. Pochi calzoni. Arriva il dolce. Sono le tre. La nutella calda trabocca dal cornetto, la marmellata cola e appiccica le dita. Gli occhi si chiudono, persino nel frastuono più assordante. Mentre le note appaiono sorde e stonate. E volano sghembe tra gli sfortunati balconi che non dormiranno mai e le persiane chiuse invano. Come questa finestra sopra di me, che non ferma il sole di metà pomeriggio, pigro, in una stagione non sua.

Che, anzi, sembra tenermi mezzo sveglio. A captare il rombo di una moto cinque piani più giù. Un rumore. Che è una storia possibile. Quella del figlio di papà coi soldi. O quella del ladro di motociclette. O quella di un giovane appassionato che ha venduto tutto, per avere quel rumore. Che è materia. E s’ accontenta di girare con la carena lucida e una calza sfondata.

E giù c’è anche la voce di un bimbo che piange. Ma la sento più distante. Come venire dal fondo di un lago. E deformato un urlo di rimprovero. Di una madre disperata, o severa, o spaventata. O forse, non è nemmeno la madre. Ogni eventualità è un pezzo. Come quello venduto sul banco del rosticciere. Che intanto, sono le quattro, ha svuotato il bancone.
Non è rimasto niente da scegliere. È la fine della giornata. Il rosticciere esce. Cala lentamente la serranda. Che stride in una sinfonia ubriaca. Note metalliche che si confondono con le altre, mescolandosi in un concerto di ricordi. Intanto la ringhiera cade giù, lentamente, come un occhio stanco in un pomeriggio di sole pigro, in una stagione non sua. La serranda è chiusa. Le ultime note s’innalzano nel cielo.
Un pezzo di cielo. Un cielo nero, fino a un attimo prima. E un cielo d’alba, quasi all’improvviso. Com’è una carezza per chi riposa. Un cielo nuovo e fresco, dalle sfumature del rosso e del blu. Del presagio e della speranza. Di un futuro, in fondo, atteso da un pezzo.


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