DI LAURA ANELLO (www.lastampa.it) “Dov’è Chiara, sta meglio?”. Giovanni, 11 anni, non sa ancora che la sorella piccola non c’è più, che quel fagotto tirato fuori l’altra mattina dalle macerie della sua casa a Favara, con addosso il pigiama, ha smesso di respirare dopo qualche minuto. “L’ho sentita piangere, è viva”, ha detto ai familiari quando è stato portato in ospedale. Nessuno ha avuto il coraggio di togliergli questa illusione. Sa di Marianna, la sorella più grande, 14 anni, trovata morta per prima sotto un metro di tufo e mattoni, ma si abbarbica al pensiero di Chiara per andare avanti.
Era con lei alle sette del mattino, al momento nel crollo, giocavano nei loro lettini al primo piano della casupola, si stiracchiavano e si facevano il solletico mentre Marianna e i genitori facevano colazione in cucina al pianterreno. Li hanno trovati accanto, quasi abbracciati. Il ragazzino salvato dal guanciale che gli è finito sulla testa e ha attutito il colpo, la bambina in fin di vita. Lui adesso è sdraiato in un letto nella prima stanza al quarto piano dell’ospedale dei Bambini di Palermo, reparto di Chirurgia pediatrica.
Sta abbastanza bene, lascerà l’ospedale entro quattro o cinque giorni. “Ho fame, quando si mangia?”, continua a dire, digiuno com’è da un giorno per gli accertamenti medici. “È un gran mangione – dice la zia Concetta, sorella della madre, che lo segue come un’ombra – erano mangioni tutti e tre”. In reparto rassicurano: “Ha soltanto una sindrome da schiacciamento alla gamba sinistra – dice un medico, Franco Carolina – cosa che può scatenare la messa in circolo di sostanze tossiche a carico del rene. Per questo lo terremo sotto osservazione per qualche giorno, ma non c’è niente di cui preoccuparsi. Niente fratture, niente lesioni interne”. Per le sorelle, domani, i funerali, dentro bare bianche.
È magro, Giovanni, sdraiato nella penombra di una stanza a due letti, con gli occhi sgranati verso la porta, pronto a cogliere ogni segnale che arrivi dal corridoio. La madre, Giuseppina Bello, è stata dimessa dall’ospedale di Agrigento, ma ha la testa e la spalla ferite e doloranti, non se l’è sentita di venire fin qui. Il padre, Giuseppe Bellavia, la faccia del dolore, un braccio fasciato e appeso al collo, un cappello calato su un occhio nero, arriva alle quattro del pomeriggio e si infila in corsia senza dire una parola. È il primo abbraccio con il figlio, forte e lungo, dopo la mattina della tragedia.
Nel cuore il bambino ha un dolore grande ma anche un piccolo rammarico, quello del suo cellulare perduto nel crollo, l’unico tesoro di chi di giocattoli e gadget ne ha visti pochi. “Dopo avere chiesto di Chiara, è la prima cosa che ha detto per telefono ai genitori quando li ha sentiti – racconta Maria, altra sorella della madre – Loro lo hanno rassicurato, gli hanno detto che ne compreranno uno nuovo, ancora più bello, di non pensarci più”. Era tutto il suo orgoglio, e lo prestava anche a Chiara, che a tre anni era bravissima a mandare messaggi con le faccine sorridenti.
Con quello, con il suo cellulare, sembrava ieri che avesse chiesto aiuto da sotto le macerie, che avesse perfino parlato, indirizzato i soccorritori. “Non è andata così – spiegano i familiari – siamo stati noi a chiamarlo al telefonino quando la casa è crollata, speravamo di sentirlo rispondere visto che ce l’aveva sempre addosso, che non se ne separava mai. Invece non suonava nemmeno”.
Famiglia povera, poverissima, e già colpita dal dolore. Un’altra sorella della madre – racconta Concetta – ha perso pure lei due figli: una bambina, neonata, per un rigurgito di latte, e un bambino di sei anni, nel 2005, per un incidente in macchina. “Di disgrazie non ce ne sono mancate”, dice asciugandosi gli occhi. Giovanni ha dalla sua la forza dell’età, della vita che chiama.
È dispiaciuto per la sconfitta della Juve, sua grande passione. Vorrebbe una maglietta bianconera. Qualcuno in reparto pensa già di regalargliela.