CATANIA – Lucio Tusa sarebbe il capo della cellula della famiglia Madonia a Catania. Il nipote di Giuseppe Piddu Madonia avrebbe (almeno fino a qualche anno fa) rappresentato quella “cerniera” tra i Santapaola e la cupola palermitana. A Catania avrebbe creato un suo quartier generale che gli permetteva attraverso “teste di legno” e “faccendieri” di concludere affari di indubbia rilevanza criminale, dalla droga agli appalti. Nel 2011 l’operazione Gibel della Dia smantella i cardini di questa “frangia” dei Madonia che aveva preso pieno potere alle falde dell’Etna. Ed è proprio dal vulcano Mongibello che trae origine il nome dell’indagine: Gibel, dall’arabo montagna. Finiscono in cella oltre a Lucio Tusa, l’imprenditore Giuseppe Ardizzone, Biagio Angelo Finocchiaro, Gaetano Ursino e Giuseppe Faro.
A livello processuale l’inchiesta si spacca in due stralci, uno con il procedimento abbreviato e uno con il rito ordinario.
Il processo in ordinario è a un passo dalla sentenza di primo grado, mentre per l’abbreviato è già arrivato il verdetto in appello. Lucio Tusa, assistito dall’avvocato Pietro Nicola Granata, è stato condannato in secondo grado a 13 anni e 4 mesi (in primo grado a 14 anni, è stato assolto in appello dalle contestazioni sul lavoro fittizio). Il difensore sta valutando l’eventuale ricorso in Cassazione. Istanza invece già presentata alla Suprema Corte da parte dell’avvocato Carmelo Peluso che difende l’imprenditore Giuseppe Ardizzone, condannato a 8 anni di reclusione.
Il cuore dell’inchiesta è stata nuovamente scandagliata dai pm Rocco Liguori e Jole Boscarino durante la requisitoria del processo ordinario. I due sostituti hanno presentato le richieste di pena per i quattro imputati rinviati a giudizio: per Carmela Donatella Di Dio è stata chiesta la pena a 9 mesi di reclusione, così come per Francesco Giovanni Russo, 13 anni la condanna chiesta per Giuseppe Faro e 12 anni per Gaetano Ursino. Il tribunale ha già ascoltato le arringhe difensive, tranne quella del legale di Ursino prevista a maggio.
Le intercettazioni audio e video della Dia, nonostante le grandi accortezze degli indagati, fotografano come Lucio Tusa fosse incardinato in un sistema di affari illeciti con al centro lo smercio di sostanze stupefacenti. I blitz di Caltanissetta avevano “spaventato” i sodali del boss dei Madonia. Per paura di essere captati dalle cimici infatti, quando parlavano nell’abitazione di Tusa di via Quintino Sella, alzavano il volume della tv in modo da rendere incomprensibili le loro conversazioni. Ma una telecamera era stata piazzata a casa di Tusa: inequivocabile per la Procura la scena del 19 settembre 2009 dove avviene la spartizione del denaro in perfetto silenzio. (Intercettazione illustrata dal Capitano Sframeli della Dia nel corso del dibattimento).
Come si legge nella sentenza di primo grado, a dare precisi riferimenti su Lucio Tusa, indicandolo come referente della famiglia Madonia, e dei suoi fidati (in particolare su Giuseppe Ardizzone) sono tre collaboratori di giustizia. Carmelo Barbieri, ex appartenente alla famiglia di Gela, conosceva personalmente Tusa e aveva saputo (de relato) che Ardizzone era il “suo uomo di fiducia”. Eugenio Sturiale, collaboratore con affiliazioni ai Santapaola, ai Cappello e prima dell’arresto ai Laudani, ha parlato di Tusa e di Ardizzone in ordine a un incontro per una proposta di gestione di un fiorente traffico di cocaina. Infine Santo La Causa, ex reggente dei Santapaola, aveva definito Lucio Tusa “uomo d’onore riservato” (un sodale – si legge nelle motivazioni del Gup- la cui affiliazione era nota solo a colui il quale lo aveva affiliato).
Ma sono le intercettazioni a “blindare” la posizione di Lucio Tusa. L’imputato in molte conversazioni si lascia andare – secondo le motivazioni del giudice – a chiari riferimenti alla sua piena affiliazione alla famiglia di Giuseppe Madonia, al suo ruolo di collante con Provenzano e al suo diretto coinvolgimento in spartizioni di utili su cantieri e altre attività.
Tra le intercettazioni di particolare interesse (citata anche dal Gup nella sentenza di primo grado) è la definizione (nella sua accezione positiva) del “sentire” mafioso esternata da Giuseppe Ardizzone riferendosi a Lucio Tusa: “Intendo il mafioso in senso positivo ….è una persona che ha principi. ..poi è anti Stato … ma è una persona che ha principi morali …cose che non esistono …poi c’è il discorso che è anti Stato”.
Anche nel processo ordinario i pm, nella loro requisitoria, fanno riferimento ai tanti nastri sbobinati dalla Dia che hanno per protagonisti gli imputati. Giuseppe Faro non solo sarebbe in continuo contatto telefonico con Lucio Tusa, ma sarebbe quasi sempre presente nei vari incontri tra sodali. Ed è in queste conversazioni che emerge la paura delle intercettazioni: Tusa etichetta il cellulare “un mandato di cattura”, mentre Ursino da consigli utili per evitare il rischio di essere captati. E non mancano le occasioni in cui Faro si fa bonificare la sua auto per controllare la possibile presenza di cimici. “Faro – affermano i pm – nel periodo in cui si sono svolte le indagini, collaborava con il Tusa, del quale aveva la piena fiducia, per mantenere rapporti con soggetti malavitosi”. In alcune occasioni Faro si sarebbe interessato di alcune estorsioni e addirittura sarebbe stato inviato come emissario a Gela (per conto del Tusa) per trattare su una partita di cocaina.
Altra figura rilevante dell’entourage di Tusa – secondo l’accusa – è Gaetano Ursino che risulterebbe secondo le ipotesi della Procura “uno dei più assidui frequentatori di Tusa Lucio con il quale condivideva interessi economici”. I pm mettono in rilievo una conversazione, da cui emergerebbe l’affiliazione di Ursino alla cellula catanese dei Madonia. A casa di Tusa, in via Quintino Sella il 10 gennaio 2009 Ursino, dopo un rimprovero di Tusa per il suo attaccamento al denaro e per avere messo in discussione l’operato del capo, rispondeva testualmente “ma anch’io sono a tua disposizione”. Una frase che secondo i sostituti procuratori sottolinea “ il suo assoggettamento assoluto alle decisioni di Tusa”.
“Confidiamo di convincere il Tribunale della totale estraneità del nostro assistito al reato che gli viene contestato – afferma il difensore di Gaetano Ursino, l’avvocato Tommaso Tamburino – L’accusa si fonda esclusivamente sul contenuto di una conversazione ambientale intercorsa tra lo stesso Ursino e il Tusa: l’oggetto di questa conversazione – spiega il legale – è stato a lungo oggetto di approfondimento nel corso del processo e non ha nulla a che vedere con tematiche delinquenziali. Il rapporto tra Ursino e Tusa, del resto, nasceva da frequentazioni e amicizie giovanili”.