(di Marianna Rizzini – da Il Foglio) Gianfranco Miccichè è stato soprannominato, nel mezzo della battaglia con Giulio Tremonti (e Silvio Berlusconi) per il sud, nell’ordine: viceré, proconsole, tribuno, separatista. Lui si definisce “sudista”. “Sono un sudista innamorato del sud, come ho detto a Berlusconi nella lettera che il premier ha inopinatamente fatto leggere ai suoi commensali, quella in cui gli davo di conte Ugolino che mangia i suoi figli” (e ieri il premier ha risposto: “E’ esattamente il contrario, è un’esegesi difforme dalla realtà”). “In quella lettera”, dice Miccichè, “scrivo che sono innamorato del sud come sono innamorato delle mie tre figlie e sono innamorato del sud nell’interesse delle mie tre figlie”. Che cosa voglia davvero Miccichè, nel giorno in cui ha in programma un incontro con il premier (che peraltro ieri ha definito un eventuale Partito del sud “un controsenso”), si capisce prima di tutto per esclusione: non una cabina di regia (“per carità”). Non una Consulta (“mi viene male”). Non un ministero ad hoc (“per l’amor di Dio”). Miccichè dice che vuole “tornare agli anni in cui l’Europa ci faceva i complimenti per l’allocazione dei fondi per il sud”, e allora gli attori sulla scena erano gli stessi: Miccichè, Berlusconi e Tremonti. “Solo che Tremonti non aveva ancora rinnegato il lavoro fatto insieme per ripianare il deficit di bilancio”, motivo per cui oggi si becca da Miccichè l’appellativo di “traditore”. Il “sudista” vuole “uno strumento per tornare a uno sviluppo tangibile, a un modello di crescita lodato dal Fondo monetario internazionale”. Il sudista dice che “o Berlusconi garantisce a Miccichè che lo strumento per riportare le cose come stavano prima può continuare a essere il suo governo – perché io non ho certo bisogno di altre poltrone, e sono già in imbarazzo per quella di sottosegretario – o bisognerà usare un altro strumento”. Il coordinamento regionale del Pdl Miccichè non lo vuole. “Diverso sarebbe il coordinamento nazionale, da lì sarei nelle condizioni di orientare la politica del partito e risolvere il problema del sud”. I tre posti da coordinatore sono però già occupati. “Ma da tre politici del Nord”, dice Miccichè (Ignazio la Russa, siciliano, uno dei tre, è considerato da Miccichè “più milanese che siciliano”). Insomma il sudista vuole “una delega piena che non passi, per arenarsi, in Consiglio dei ministri”.
Sudista è una definizione che non spiega i suddetti appellativi (da viceré a tribuno) che sembrano disegnare un profilo caratteriale fumantino e un po’ dispotico. “Dispotico no, ma ribelle lo sono sempre stato, anzi un po’ discolo”, dice Miccichè faticando ad estrarre dalla memoria qualche esempio di discolaggine. Alla fine dice che forse era discolo “ai tempi dell’Antimafia di Orlando, quando non ero molto politically correct”. “Tutti si inchinavano al santo Caselli, io insomma”, dice raccontando di aver “rischiato il linciaggio” per “aver contestato le scelte politiche, anche se non quelle antimafia, dell’Antimafia”. Lo dice alzandosi in piedi e camminando per la stanza, spostando distrattamente libri e soprammobili, misurando i passi come su un palcoscenico su cui potrebbe recitare il “Falstaff” (non fosse per l’abbigliamento décontracté: pantalone jeans verde Lega e maglietta). L’antimafia che piace a Miccichè è invece quella degli imprenditori Ivan lo Bello e Antonello Montante “che hanno deciso di schierarsi contro il pizzo e contro ogni forma di ricatto mafioso, e da allora l’economia siciliana ha cominciato a vivere un momento di libertà. La maggioranza degli imprenditori ha capito che una terra libera dall’ipoteca mafiosa non solo è in grado di attrarre risorse e investimenti ma ha anche le carte in regola per pretendere dal governo centrale aiuti e finanziamenti in grado di alleviare svantaggi strutturali e penalizzazioni territoriali. Oggi nessuno, ma proprio nessuno, da Berlusconi a Tremonti, può dire a Miccichè e Lombardo di rappresentare un sicilianismo vecchio e rassegnato, opaco e maleodorante”.
La stessa camminata teatrale di Miccichè (ma con mani sui fianchi) segna solennemente il momento in cui il sottosegretario tira fuori il possibile “logo” dell’eventuale partito del sud, logo che Miccichè non vuole paragonare ai simboli tradizionali della storia siciliana (“sono troppo drammatici, come l’urlo ‘antudo’ dei Vespri o come le forche”). Trattasi della scritta cubitale “Sud” (“il nome potrebbe essere Forza sud o Partito del sud, ma sud c’è sempre”), sotto la quale compare, a doppio significato, la frase “è partito”. I colori, dice Miccichè, “sono quelli che secondo Parigi andranno di moda nei prossimi dieci anni: viola, arancio e blu. Prova ne è che quando l’ho fatto vedere a Emma Marcegaglia, l’altro giorno, lei indossava un vestito di quei colori”. La discolaggine, secondo Miccichè, è frutto diretto della sua educazione: famiglia dell’alta borghesia palermitana “pariolina”, si direbbe a Roma: professionisti, banchieri, avvocati. Una borghesia definita “illuminata” dai palermitani che ne fanno parte (che amano anche dirsi “diversi” dalla borghesia che governa oggi l’isola). Miccichè non vuole “vantarsi di aver fatto studi umanistici, come dice chi vuole pavoneggiarsi e, come me, ha fatto un semplice liceo classico”. Suo padre, novantenne che ancora va a Salisburgo ad ascoltare concerti di musica classica, è stato un “grande bancario”. Miccichè ancora lo teme e, a volte, gli mente per evitare che il genitore, scettico e burbero, gli dica: “Imbroglione, non è vero”. Una “bella bugia” arrivò a Miccichè padre quando Miccichè figlio si recò in America, alla Federal Reserve, “a un convegno sull’uso dei fondi pubblici, in presenza di un ministro canadese, di un ministro messicano e di Alan Greenspan (nella concitazione dell’eloquio Miccichè lo chiama prima “Grisham” e poi “Grispam”, per subito correggersi, ridacchiando: “E’ la vecchiaia”). Quando seppe dell’invito a Washington, Miccichè non ci voleva credere: “Eravamo considerati nel mondo dei rivoluzionari veri”. Comprò i biglietti dell’aereo ma suo padre li vide e disse “dove vai?”. Miccichè rispose: “Concerto di Bob Dylan al Madison square garden, altrimenti non mi avrebbe creduto. E alla fine, come battuta, ho detto a Greenspan: ‘Se incontrate mio padre, non ditegli mai che ero qui”. Insistendo nel voler dare un contenuto alla sua “discolaggine”, Miccichè dice che “essere discolo significa essere uomo libero. Per essere uomini liberi, come dico sempre alle mie figlie, bisogna essere irricattabili. La mia non ricattabilità nasce dalla mia formazione, dagli ambienti in cui sono cresciuto”.
Il sud che ha in mente Miccichè è “provato”, dice, da una serie di carte estratte da un faldone (posteggiato nella macchina in sosta). Sono analisi dell’Ocse e del Fondo monetario. C’è anche, orgogliosamente fotocopiato, un articolo di qualche anno fa del Figaro sul mezzogiorno italiano, intitolato “Le gâchis c’est fini” (lo spreco è finito), in cui si legge che “da fanalino di coda il mezzogiorno è diventato primo della classe in Europa”. “Dopo i cinque anni del precedente governo Berlusconi”, dice Miccichè, “abbiamo ottenuto un risultato importante e rivoluzionato il metodo di lavoro per il sud, ma insieme alle regioni, costringendole a venirci dietro”. Nel 2003 e nel 2005 l’Fmi scriveva, dice Miccichè leggendo da uno schema fotocopiato, “il nuovo quadro delle politiche del sud si è allontanato dal sistema dei sussidi spostando le risorse verso gli investimenti in infrastrutture pubbliche e il rafforzamento delle istituzioni locali”. C’era Miccichè al sud, in quegli anni, ma c’era pure Tremonti. Non c’era il Pdl ma un partito di maggioranza, Forza Italia, “che faceva cose memorabili per il meridione”, dice Miccichè, ripetendo “io c’ero”, come per sottolineare il fatto di essere un uomo della vecchia guardia del berlusconismo siciliano (nonché della vecchia guardia dei berlusconiani tout court, prima che Tremonti diventasse per la prima volta ministro). Nostalgia vuole che ora Miccicchè si ritrovi a rimpiangere le telefonate “con Bossi che chiamava per chiedermi a che punto era il mezzogiorno e diceva che il federalismo fiscale non sarebbe potuto nascere senza una convergenza reale tra nord e sud”. E se si dice a Miccichè che il sud dovrebbe cominciare a esprimere ciò che il sud può fare per l’Italia e non il contrario, Miccichè risponde che “per passare, questo messaggio deve avere orecchie interessate, che non ci sono in questo momento”. Ai finiani spaventati dal fatto che il “Partito del sud” metta in pericolo la coesione nazionale, Miccichè, che rifiuta d’altro canto di essere “raffigurato come un sindacalista meridionalista neoborbonico”, manda a dire che “è tutta demagogia. E’ fin troppo evidente che un sud che non cresce spacca l’Italia. Noi non vogliamo sfasciare l’unità d’Italia, ma siamo convinti che solo la crescita del sud possa tenerla in piedi”.
Quando parla del Bossi che gli telefonava e “dell’idillio che c’era con Tremonti prima del 2004”, sembra che il sottosegretario ricordi un’età dell’oro. Ma siccome i protagonisti non sono cambiati, qualcosa dev’essere successo. “Tutto accadde”, dice Miccichè, “nell’estate del 2004 a Taormina, durante una riunione di un noto think tank. Rabbrividii nel sentire Tremonti, presente Padoa-Schioppa, dire qualcosa che mi fece capire che aleggiava l’idea di risolvere il problema del debito pubblico italiano attraverso l’utilizzo dei fondi per il sud. Allora costruii una diga di cemento armato fenomenale. Perché dopo Ciampi, e proseguendo lungo la linea disegnata da Ciampi, avevamo istituito – io viceministro con delega al sud, e Fabrizio Barca mio capo dipartimento – una struttura blindata che ruotava attorno al concetto di fondo unico. La struttura consisteva nel dipartimento per le Politiche di sviluppo che comprendeva Cipe, Fas, fondi strutturali e la delega alle Politiche per il sud. Alla fine della legislatura, con Romano Prodi al governo, Padoa-Schioppa per prima cosa ha sbrindellato questa struttura. Forse non aveva questa intenzione, e la cosa era stata decisa altrove. Ma nel giro di due anni sono stati portati via sei miliardi di euro dal sud. Quando siamo tornati al governo, la mia speranza era che si potesse ricostruire la struttura passata assieme a Tremonti. Non è stato così, e la cosa che più mi fa impazzire è che l’avevamo costruita insieme. Lui sa che io sono contro gli sprechi. Oggi Tremonti non solo decide di fare come Padoa-Schioppa ed è un delitto. Ma vabbè, è il ministro dell’Economia. Ma che lo faccia accusando il sud di buttare quei quattrini no: è una menzogna”. Il bersaglio non è solo Tremonti ma anche quelli “che è stato capace di portarsi dietro: i ministri del sud come Fitto e Alfano che dovrebbero essere giovani speranze di cambiamento ma dimostrano di far parte della vecchia politica anni Cinquanta”. Ogni volta che Miccichè nomina Fitto e Alfano, i nemici di Miccichè dicono che la sua ribellione è un regolamento di conti all’interno del centrodestra. “E’ escluso”, dice il sottosegretario “sudista”: “Ricordo a tutti che un anno fa volevo quasi andare in pensione perché quello che dovevo fare l’avevo fatto. Come coordinatore regionale del partito, alle politiche del 2001, ho raggiunto il sessantuno a zero, sessantuno collegi tutti presi. Fui chiamato da un’università inglese che voleva studiare il caso: si erano resi conto che la Sicilia è più grande dell’Irlanda e che il maggioritario secco poteva portare alla mancanza di opposizione”. Miccichè lo ha ricordato a Berlusconi in questi giorni: “Non ho chiesto nulla dopo quel successo, e ora come si permette di dire che agisco per il mio tornaconto?”.
La conoscenza Miccichè-Berlusconi nacque in un altro momento di “discolaggine acuta”, dice il sottosegretario. A ventinove anni Miccichè, dopo qualche anno di lavoro nella banca dove era entrato, dice, “grazie a mio padre, cioè per raccomandazione”, era stato promosso capoufficio: “Una carica che arrivava di solito dopo i quarant’anni. Il problema fu che la promozione me la comunicò mio padre, e non il direttore generale o un alto dirigente. Non accettai. Capii che sarei stato sempre, lì dentro, un ‘figlio di’. Mi licenziai e quella stessa sera, per incazzamento, me ne andai a Milano a trovare mio fratello. Lì incontrai per caso Marcello Dell’Utri, che poco tempo prima mi era stato presentato dal mio amico Ferruccio Barbera. Dell’Utri mi disse che stava cercando persone per Publitalia. Io ero libero da tre ore. Feci il colloquio e il lunedì successivo firmai da Berlusconi. Sono grato a mio padre per tutto quello che mi ha dato nella vita, ma non potevo restare uno che si faceva strada grazie alla famiglia. Sono discolo come lui, che quando sono diventato ministro rispondeva – a quelli che gli chiedevano ‘ma lei è il padre di Gianfranco?’ – ‘finché sono vivo io, è Gianfranco che è mio figlio’”. Il suo “compare” Michele Cimino, assessore all’Agricoltura a Palermo, assicura che “a differenza di altri politici, Gianfranco è uno che cresce e fa crescere gli altri, sì, ma spesso li mette addirittura sopra di sé. Qualcuno lo riconosce, altri no”. “Il mio insegnamento – dice Miccichè – è quello ricevuto nell’azienda privata di Berlusconi, l’insegnamento del fatturato. In Fininvest la gente la prendevo brava, perché più crescevano loro più guadagnavo io. In politica ho fatto lo stesso”. Un giorno Berlusconi, dice Miccichè, gli disse “i ministri li abbiamo fatti tutti io e te”. I ministri “prodotti da Miccichè, dice Miccichè, sono: “Oltre a me, Prestigiacomo, Alfano, La Loggia. Più Schifani presidente del Senato”.
Con Raffaele Lombardo, governatore della Sicilia, il rapporto (di concorrenza?, di alleanza?) è definibile, dice Miccichè, “con una battuta che richiama una sigla aziendale: Ati, Associazione temporanea d’impresa”, e anche con una definizione in stile “onore delle armi”: “E’ una persona difficile, ma mi ha sempre fatto simpatia perché è uno che non si fida neanche di se stesso. E siamo amici, anche quando ci scontriamo”. Si sono scontrati parecchio, i due, un anno fa, quando Miccichè ha attraversato un’altra delle sue fasi ribelli e voleva correre come presidente della regione dopo due anni di presidenza dell’Assemblea regionale siciliana (e non molti nel partito approvarono). Aveva aperto un blog – che deluse molti internauti quando Miccichè decise di non attuare quella marcia solitaria. La mattina si telefonava col rivale Lombardo, non tanto per inciucio quanto per “lealtà della sfida”: “Guarda se oggi non fai tu questa cosa la faccio io”, gli diceva. “Chi non volle farmi correre” – questa la versione di Miccichè – “furono Alfano e Schifani, che a differenza di me erano molto legati a Cuffaro e al cuffarismo. Al cuffarismo rimprovero di aver impantanato ancor di più la regione in un modus operandi ispirato al ‘se io non so, niente si può fare’. Schifani e Alfano erano convinti che Lombardo potesse rappresentare la continuità cuffariana”. Paradosso: oggi Miccichè è “amico” di Lombardo e Alfano e Schifani no. Il sudista Miccichè, di primo mattino, sapendo di dover incontrare in serata Berlusconi, dice di non essere “uno che proporrà al popolo siciliano di fare secessioni. Certo, il popolo siciliano è un popolo che ogni cento anni ha fatto una guerra di secessione, e ha saltato giusto il Novecento. Se e quando dovessimo staccarci dal carro, le nostre ricchezze le useremo noi. In Sicilia non sono tutti figli della borghesia come me, gente moderata, e prima o poi un nuovo Masaniello verrà fuori”. E se gli si dice “Miccichè, i suoi avversari pensano che il partito del sud non sia un movimento di popolo”, Miccichè risponde che la gente lo ferma per strada “per iscriversi a qualcosa che ancora non c’è. Comunque partiamo dai 125 mila voti presi da Cimino alle europee, dopo che era stato espulso dal Pdl perché con me sosteneva Lombardo”. Poco prima di cena il Cav. ha fatto sapere: “Fuori dal Pdl, nulla salus”, ma intanto promette che ci sarà un ente unico a coordinare i finanziamenti per il sud.