Il suicidio è Cosa nostra - Live Sicilia

Il suicidio è Cosa nostra

La storia di Cosa nostra è piena di uomini e donne che hanno scelto il suicidio. Un gesto estremo che contraddiceva il codice d'onore dell'organizzazione. Ecco i casi più eclatanti.
I mafiosi che si sono tolti la vita
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La storia di Cosa nostra è piena di uomini e donne che hanno scelto il suicidio. Un gesto estremo che contraddiceva il codice d’onore dell’organizzazione. Lo hanno fatto per paura, per sfuggire a possibili vendette, o forse, più semplicemente, per la fragilità della natura umana. Il primo eclatante episodio è dell’agosto 1993. A Rebibbia si toglieva la vita Antonino Gioè. Corleonese di ferro, stava progettando un attentato al Palazzo di giustizia di Palermo e un piano per ammazzare le guardie penitenziarie del super carcere di Pianosa.Lo trovarono, quattro mesi dopo l’arresto, impiccato alle sbarre della sua cella con i lacci delle scarpe. Lasciò una lettera in cui cercava di discolpare i mafiosi che aveva tirato in ballo nelle sue conversazioni intercettate. Aveva 37 anni.

Nel 2005 nel carcere di Modena si tolse la vita Ciccio Pastoia, boss di Belmonte Mezzagno e fedelissimo proprio di Provenzano. Aveva 62 anni. Era il perno dell’inchiesta che pochi giorni prima del gesto estremo aveva portato al fermo di 50 persone. Pastoia aveva avuto modo di leggere nel provvedimento di fermo centinaia di sue conversazioni registrate. L’uomo che aveva curato la latitanza di Binu rivelava, involontariamente, di avere commessi omicidi senza autorizzazione, ma soprattutto di essersi fatto gioco del suo padrino. Più di recente è stato il boss di Porta Nuova, Gaetano Lo Presti (nella foto), a decidere di farla finita. Erano i giorni successivi al blitz Perseo del 2008. Aveva 52 anni. L’uomo fu trovato impiccato nel carcere di Pagliarelli a Palermo. Un gesto, il suo, forse da collegare, ancora una volta, alle intercettazioni che lo riguardavano. Aveva vantato con altri boss di avere l’appoggio di Giuseppe Salvatore Riina – figlio del boss Totò – per la rifondazione di Cosa Nostra. Era stato però smentito da un altro boss, Nino Spera, anche lui fermato nel blitz, il quale sosteneva che il piccolo Riina, sottoposto a sorveglianza “era fuori da tutto”, e per volere della madre “non doveva impicciarsi”.

Infine c’è anche il precedente di una donna, Vincenzina Marchese, moglie di Leoluca Bagarella. Era la sorella di Pino Marchese, autista di Totò Riina e pentito. E furono proprio i collaboratori di giustizia a raccontare che si era tolta la vita nel maggio del 1994. Ragioni personali, intime, o forse il dispiacere per la scelta del fratello. O forse ancora la depressione scatenata dall’impossibilita di avere un figlio. “Quando andai a casa sua – ricordava il pentito Tony Calvaruso – trovai Bagarella inginocchiato dinanzi al cadavere. Diceva che la moglie lo ‘rimproverava’, facendogli colpa della sterilità del matrimonio”.

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