PALERMO – La parola del momento, a meno di un mese dal voto, è “impresentabili”. Un lemma di notevole vaghezza divenuto in tempi recenti l’arma politica più facile e a buon mercato. È la vecchia “questione morale”, declinata secondo la sensibilità e le tendenze dei nuovi tempi, che ammorba la campagna elettorale delle Regionali. Inevitabilmente, infatti, si finisce per non parlare d’altro. Spariscono i programmi, evaporano i problemi della Sicilia, sfumano in un’indefinita foschia le differenze di contenuti tra le varie proposte politiche.
Il tema degli “impresentabili” viene cavalcato in questi giorni dai grillini, ed è in fondo un cavallo di battaglia della compagnia dell’“onestah” pentastellata. Cancelleri e compagni agitano il vessillo per attaccare la destra di Nello Musumeci, bersaglio ormai fisso delle uscite dei 5 Stelle. Quel centrodestra che in effetti, per via di alcune scelte abbastanza discutibili, offre il fianco a questo genere di attacchi. Tant’è che lo stesso Musumeci non ha respinto la questione nel merito ma, rispondendo sull’argomento, si è rifugiato nella comodissima risposta degli elettori che alla fine scelgono loro. Sì, certo, vai a capire però sulla base di quali ragioni.
Insomma, la situazione è grave ma non è seria. Come quasi tutte le cose che si piegano alle logiche da slogan della campagna elettorale. Dalla politica all’inquisizione, infatti, il passo è breve e nel calderone indistinto dell’impresentabilità, nella foga dell’attacco politico, finiscono tutti, anche cose e persone che fra loro c’entrano poco o nulla, pur di implementare il volume del dossier contro l’avversario. Il lungo (e affollatissimo) video di Cancelleri è emblematico in questo senso. E si è sempre tutti molto bravi a guardare a casa d’altri ma assai meno attenti a casa propria, basti pensare agli stessi grillini, così prudenti e garantisti quando sotto scopa dalle parti delle procure finiscono le Virginia Raggi o i Patrizio Cinque, senza neanche voler scomodare la faccenda delle firme false.
E così, tra un impresentabile e un altro, la campagna elettorale se ne va. Svicolando da ogni possibilità di confronto su temi concreti. E con la Sicilia condannata a consumarsi in una messianica attesa per Rosy Bindi (!), aspettando il verbo della sua commissione Antimafia.
“Il codice penale è diventato la Magna Charta dell’etica pubblica: si tratta di un segno di autoritarismo sul quale penso valga la pena di riflettere”, disse qualche mese fa l’ex presidente della Camera Luciano Violante. I recentissimi esiti delle vicende giudiziarie di Clemente Mastella e Ottaviano Del Turco, che incisero nelle carni la democrazia del Paese agli albori delle inchieste, suggerirebbero una revisione di questo modello e la capacità di distinguere caso per caso. Perché alle volte l’inopportunità politica non richiede di scomodare il codice penale. Ma quando si confondono l’etica pubblica con i certificati dei carichi pendenti, si finisce dritti a quella “società giudiziaria” di cui parlò Violante nel discorso citato sopra. E tutto diventa un indistinto magma in cui le situazioni più gravi e meritevoli d’indignazione si confondono con storie ben diverse – che richiederebbero prudenza – in una marmellata forcaiola.
Intanto, di quello che effettivamente aspetta la Sicilia dal 6 novembre, del suo futuro, sempre meno si parla. Verrebbe proprio da dire, parafrasando Brecht, fortunato il popolo che non ha bisogno di Rosy Bindi.