PALERMO – Ci vuole tutta la forza del carabiniere per tirarlo fuori dalla macchina con cui sta scappando, pochi minuti dopo avere ucciso un fruttivendolo a colpi di pistola fra le bancarelle del Capo.
Il clima si è fatto ostile attorno ai militari che hanno bloccato Calogero Piero Lo Presti. Meglio portarlo subito in caserma, nella sede del Comando provinciale dei carabinieri, ad una manciata di metri dal Teatro Massimo. Per raggiungerla bisogna percorrere via Volturno. Durante il tragitto di poche decine di metri il giovane killer tiene la bocca chiusa, non viene meno al vincolo dell’omertà. E quando la apre lo fa solo per rivendicare le sue origini: “Mi avvalgo del diritto di non rispondere, lo so bene perché sono un Lo Presti”.
Pronuncia il suo cognome con fermezza, ne fa un simbolo di appartenenza. D’altra parte il giovane è l’ultimo ad essere finito nei guai in una famiglia marchiata dalle inchieste giudiziarie dell’ultimo ventennio.
In principio c’era Salvatore Lo Presti che a Porta Nuova tutti chiamavano Totuccio. Un pentito accompagnò i carabinieri nelle campagne di Carini dove era stato seppellito il suo cadavere. Era il 1997. Arrestati Totò Riina, Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca qualcuno provò ad emulare i corleonesi. I Vitale fardazza di Partinico volevano prendersi in mano la città di Palermo, partendo dalla zona centrale. Ci fu qualche traditore a Porta Nuova.
Totuccio Lo Presti fu rapito e ucciso. Era il fratello di di Calogero Lo Presti, il nonno del giovane arrestato sabato mattina per l’omicidio di Andrea Cusimano. Arrestato come Giovanni, il padre del giovane Lo Presti, che all’inizio degli anni duemila era finito in carcere per avere ammazzato Salvatore Altieri. Era intervenuto per sedare una lite e quando fu preso a pugni decise di farsi giustizia da solo. Lo Presti si consegnò e confessò il delitto, scagionando il figlio della vittima che si era accollato un omicidio che non aveva commesso. Non poteva accusare uno potente che di cognome faceva Lo Presti.
Calogero Pietro senior era lo zio Pietro che da una stalla sudicia dettava gli ordini al clan. Lo arrestarono nel 2011.
Tre anni prima in carcere si era ammazzato suo fratello Tanino. Lo avevano arrestato nel blitz Perseo. Fu trovato impiccato nel carcere Pagliarelli, a Palermo. Un gesto, il suo, forse da collegare alle intercettazioni che lo riguardavano. Ad altri boss aveva detto di potere contare sull’appoggio di Giuseppe Salvatore Riina – figlio di Totò – per la rifondazione di Cosa Nostra stoppata dal blitz dei carabinieri denominato Perseo. Un altro boss, Nino Spera, però lo aveva smentito, sostenendo che Riina jr “era fuori da tutto”. Per volere della madre “non doveva impicciarsi”.
Lo zio Tanino fece in tempo a far giungere un messaggio al nipote. Doveva tornare in pista Tommaso Lo Presti, soprannominato il pacchione per distinguerlo da un cugino omonimo, detto il lungo, arrestato pure lui per mafia. Dell’investitura parlava soddisfatta Teresa Marino, la moglie di Lo Presti che fino al giorno in cui l’arrestarono, nel 2015, passava gli ordini del marito carcerato. “… è salito il corto e fa dice: ‘dov’è tuo marito?’ gli ho detto ‘è messo nel divano’. Dice, ‘andiamo pacchione devi venire con noi altri’, raccontava donna Teresa.
Il corto è il soprannome di Tommaso Di Giovanni, nipote dello zio Pietro (il papà ne ha sposato una sorella) e reggente del mandamento, tornato in carcere a luglio per finire di scontare una condanna. Il bastone del comando lo aveva ricevuto dal fratello Gregorio, il reuccio di Porta Nuova, che la sua pena l’ha scontata fino in fondo e che ora un pentito, Francesco Chiarello, tira in ballo come mandante dell’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà. Un solo pentito non basta per incriminarlo, come nel caso di Tommaso Lo Presti, che il collaboratore Vito Galatolo chiama in causa nell’omicidio di Giuseppe Di Giacomo, reggente della famiglia di Palermo centro, assassinato alla Zisa nel 2014. “Giuseppe Di Giacomo aveva offeso Tommaso Lo Presti che voleva impadronirsi del mandamento e per questo fu ucciso”, ha messo a verbale il boss dell’Acquasanta.
Intrecci su intrecci: una sorella di Giuseppe Dainotti, il boss assassinsto lo scorso maggio alla Zisa, è la madre di Tommaso Lo Presti, il pacchione. La sorella di Tommaso, invece, è sposata con Salvatore Pispicia, altro nome che conta a Porta Nuova e pure lui detenuto.
Una saga di mafia, potere e violenza. Violento fu Salvatore Di Giovanni, il figlio di Tommaso. Pestò due ragazzi dello Sri Lanka, massacrati di notte al rientro a casa, nel quartiere Zisa. Di Giovanni è stato condannato per tentato omicidio. Confessò il delitto, ma negò il movente razzista. Si era trattato di una questione “d’onore”. Il giovane Di Giovanni ha 26 anni, di cui già sei trascorsi in carcere. Non si conosce ancora il destino giudiziario di suo cugino Calogero Piero che di anni ne ha 23 anni ed è accusato di avere commesso, e non solo tentato, un omicidio. Un reato contestato con l’aggravante del metodo mafioso.
Perché ha agito con premeditazione, ha sfruttato, scrive il giudice, “la forza di intimidazione e la condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva”. Al Capo qualcuno lo ha aiutato e protetto tra la folla. Nessuno, però, che abbia visto e sentito qualcosa da riferire ai carabinieri. Il giovane killer è un Lo Presti e merita rispetto.
Gente ammazzata o che si è ammazzata, pesanti condanne: il destino dei Lo Presti dovrebbe essere uno spot che allontana dalla mafia, invece su ampie sacche di popolazione provoca l’effetto contrario. Lo dimostra la protezione di cui ha goduto il rampollo di famiglia al mercato del Capo dove ci sono connivenza e paura.