L’ultimo saluto a Filippo |tra le lacrime del Cep - Live Sicilia

L’ultimo saluto a Filippo |tra le lacrime del Cep

Il pregiudicato ucciso
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Ci sono finestre accese, al Cep, anche di giorno, quando fuori piove. Sui vetri di un settimo piano una ragazza ha seminato una fioriera di adesivi. Alzi gli occhi al cielo di un’altra periferia, scorgi le figurine colorate di una stanza da adolescente. E speri. Poi li riabbassi sul feretro di Filippo, circondato dallo strazio dei suoi. La pioggia cade più forte.

Filippo Arceri non usciva mai dal Cep, se non – dicono – per certe scorribande con suo cugino, sodale di furti ai magazzini. E’ diventato celebre suo malgrado, nel resto della città, quando la sua faccia è finita sul giornale. Una faccia e tonda con due baffoni trasversali. La faccia di un morto ammazzato da un carabiniere che l’avrebbe colto sul fatto in via Castellana Bandiera. Ucciso – hanno spiegato i militari – da un colpo accidentale. Filippo non può vedere la speranza in fiore sulle finestre del suo quartiere povero e malandato. Ma non è necessariamente un male. Se Filippo avesse ancora occhi sarebbe costretto a incrociare gli occhi di sua moglie Rosy, che si appoggia alla bara e piange, nell’ultimo viaggio insieme. Il Cep celebra il funerale di un pregiudicato, di un padre, di un marito. E lo fa a modo suo. Un interminabile ululato precede l’ingresso del corteo nella chiesa di San Giovanni Apostolo, la canonica, il centro sociale, il rifugio, del rione. Il parroco si chiama Pino Spataro. Qualche minuto prima delle esequie racconta: “Io dico sempre alla gente di qui che deve avere dignità e comportarsi come se abitassimo in via Libertà. Qui le persone perbene sono tante, la grande maggioranza. Filippo? Lo vedevo di sfuggita. Conosco meglio sua moglie, Rosy. La signora è stata di una compostezza esemplare. So che i carabinieri si sono fatti vivi con la famiglia per ribadire che è stata una disgrazia. La signora ha mantenuto un contegno ammirevole”.

Adesso, nel privato di un rito collettivo condiviso con la comunità, Rosy si scioglie. Ho lo stesso viso devastato che portava davanti alla camera mortuaria del Policlinico, nel giorno maledetto. Solo dimostra tanta stanchezza in più. L’ululato in chiesa non si placa. Si espande. Si raddoppia. Altissime grida si sovrappongono velocemente. Tocca a don Pino intervenire, con grazia ed esperienza. Suona la campanella. Si impone: “Preghiamo per il nostro fratello”.
La platea funebre si acquieta. Ascolta le parole di conforto dell’uomo vestito di bianco all’altare: “Dobbiamo trovare la pace nei nostri cuori”. Al “Padre nostro”, scoppia, come un moto frenetico, l’ennesimo applauso. Il sacerdote viene avanti con le ostie per la comunione. Nessuno si alza dalle panche. Nessuno si sente abbastanza riconciliato da accettare la particola candida dalle mani di un servo di Dio. Ora c’è silenzio in chiesa, mentre l’incenso affumica il corpo di Filippo Arceri nella bara che viene sollevata e portata fuori, Non ci sono più urla. C’è il tempo per un giro nel quartiere. Sotto c’è la taverna, sopra ci sono le finestre accese del Cep. La pioggia è dappertutto.


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