"L'8 marzo non è una festa"

“L’8 marzo non è una festa”

Stefania Arcara è femminista e docente di Studi di Genere all'Università di Catania.
L'INTERVENTO
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6 min di lettura

CATANIA. «Donne / per poterci sfruttare / e opprimere ci hanno sempre / divise: / le brutte dalle belle / le mamme dalle figlie / le ricche dalle povere / le nere dalle bianche / le “oneste” dalle “puttane”/ le suocere dalle nuore / le istruite dalle ignoranti / le cognate dalle cognate / le “zitelle” dalle maritate / le omosessuali dalle eterosessuali / le grasse dalle snelle / le vecchie dalle giovani ecc. / Abbiamo rifiutato queste divisioni, / ci siamo unite, / lottiamo insieme per la nostra / LIBERAZIONE». 

Così recita il testo di un volantino firmato dal Movimento femminista romano in occasione dell’8 marzo 1974. Queste parole, così dirette, politiche, audaci, collettive – quel “liberazione” gridato con rabbia e con gioia in maiuscolo – suonano molto distanti dalla retorica, soprattutto quella istituzionale, che nei decenni si è andata ripetendo ritualmente intorno alla data della Giornata internazionale dei diritti delle donne. 

Già pochi anni dopo, proprio a Catania, le femministe raccolte nel Coordinamento per l’autodeterminazione della donna chiedevano polemicamente «Quale 8 marzo?», in un documento dai toni accesi scritto per l’8 marzo del 1980, in cui, tra le altre cose si leggeva: 

 «…La rabbia delle donne è incontenibile! 
Prendiamoci dunque questo 8 marzo contro chi ce lo vorrebbe imporre solo come una “festa” da santificare, una “festa”, guarda caso, ancora una volta “comandata”! 
Le premure e le attenzioni che in questo giorno ci circondano ormai ci insospettiscono: che non sia tutto un imbroglio? 
I mariti disposti a fare i lavori domestici, i datori di lavoro che sbrodolano auguri, le cattedre delle scuole investite della celebrazione, le mimose sui tavoli degli uffici. Tutto bene.
E gli altri giorni?»

Due date simbolo

Insieme al 25 novembre, l’8 marzo è una delle due date-simbolo del calendario femminista, ma le femministe sanno benissimo che la forza di questa ricorrenza come simbolo e come occasione di lotta politica rischia costantemente di essere depotenziata non solo dalla commercializzazione di mimose, dal proliferare di biglietti virtuali di “auguri” che invadono gli smartphone, ma anche dai discorsi istituzionali e accademici.

«L’8 marzo non è una festa ma un giorno di protesta», è un altro slogan femminista che è tornato a farsi sentire anche recentemente, nei cortei che dal 2016 hanno ripreso a riempire le strade delle città italiane, compresa Catania, con il movimento Non Una di Meno. Perché mai oggi le donne hanno “ancora” bisogno di protestare? Non abbiamo forse in Italia una donna premier e una donna leader dell’opposizione? Non basta forse “pensarsi” libere individualmente, come suggerisce qualche influencer dal palco di Sanremo? Oppure è necessario ricordare che ogni conquista che le donne hanno ottenuto nell’ultimo secolo (e di cui hanno beneficiato anche le donne di destra, antifemministe) è stata il risultato di una lotta collettiva? Dell’apertura, cioè, di un conflitto. Perché quei diritti, che restano tutt’ora parziali, c’è sempre stato qualcuno che alle donne li ha negati: gli uomini come classe sociale dominante.

“Le donne oggi non sono libere”

Il primo movimento femminista organizzato in Occidente si è battuto aspramente per ottenere un diritto che oggi ci sembra elementare, quello del voto, ai primi del ‘900, quando le militanti per il suffragio in sciopero della fame sono state torturate in prigione nella civilissima Gran Bretagna. Negli anni Settanta esplode il movimento di liberazione delle donne (al plurale), women’s liberation movement, mouvement de libération des femmes, un movimento di massa transnazionale, al quale, in Italia, dobbiamo tra gli altri il diritto all’aborto, la riforma del diritto di famiglia, il riconoscimento della violenza sessuale come reato contro la persona (e non contro “la morale”), e molto altro. Perché, dunque, c’è ancora bisogno di lottare, e di parlare di conflitto, in contrapposizione alla retorica ufficiale che in occasione dell’8 marzo celebra “la Donna” (al singolare – “il mito”, diceva Simone De Beauvoir), e pretende di “festeggiarla” ritualmente per la durata di un giorno? La lotta femminista, come ci hanno insegnato le donne che ci hanno precedute negli anni Settanta, non si esaurisce con la conquista dei diritti, ma tiene insieme emancipazione e liberazione. È impopolare affermarlo, ma le donne oggi non sono libere. 

L’oppressione patriarcale è la realtà sociale in cui noi tutte viviamo, come sanno benissimo alcune donne e ragazze, e come intuiscono anche coloro che non si definirebbero mai femministe: in media, un uomo uccide una donna ogni tre giorni; alle donne viene estratto lavoro domestico gratuito da parte della classe degli uomini, malgrado l’emancipazione permetta loro di lavorare anche fuori casa, ma pagate meno degli uomini; con la pandemia tante persone hanno perso il lavoro: il 98% cento di queste persone sono donne, ricacciate nelle case a svolgere lavoro di cura; i corpi femminili (non importa se cis o trans) sono commentabili da qualunque uomo nello spazio pubblico e online, indipendentemente dalla sua classe sociale e dal colore della pelle; le donne vivono costantemente sotto la minaccia, implicita o esplicita, di molestia sessuale e di stupro (come dimostra, qualora ve ne fosse bisogno, la campagna internazionale #metoo). Poche studentesse conoscono le statistiche periodicamente pubblicate da MIUR e Almalaurea nell’indifferenza generale, che attestano, per esempio, come i ragazzi che trovano lavoro a 5 anni dalla laurea guadagnino in media il 21% in più delle ragazze, per nominare solo una delle plateali disparità.

A queste forme di oppressione materiale si aggiunge l’ideologia, il piano discorsivo. La società patriarcale in cui viviamo è infatti una struttura materiale ed economica sostenuta da un’ideologia che la naturalizza e la rafforza. Nella cultura, nel linguaggio, nella storia, nei testi scolastici e universitari, nelle immagini, sui social, in ogni manifestazione del discorso dominante, le donne sono presenti come marcate dalla differenza: sono l’Alterità, il particolare opposto all’universale, la specificità da “includere”, sesso, corpo, natura. 

Al tempo stesso, l’ideologia patriarcale lavora per cancellare, delegittimare o al limite inglobare addomesticandola, ogni traccia storica delle lotte delle donne. Allora in occasione di questo 8 marzo, facciamo un esperimento, un esercizio: distinguere tra “femminile” e “femminista”, scoprire le mistificazioni dei discorsi istituzionali e accademici di facciata. Per cogliere la distinzione, basta chiedersi: chi è il soggetto che parla di donne? E nel caso in cui il soggetto sia una donna – cosa che non è scontata, dato che persino autorevoli accademici in quiescenza vengono strappati al loro meritato riposo per parlare di “donne” alle donne in sedi universitarie – qual è lo sguardo che adotta? Questa donna rende “le donne” oggetto del discorso, un oggetto come un altro, estraneo a sé, di cui “occuparsi” in questo giorno, oppure ne parla a partire dalla consapevolezza di appartenere lei stessa alla classe delle donne e di volerne la liberazione?

Rendere le donne oggetto, oppure un “tema” interessante e genericamente meritorio, significa tradire lo spirito con cui, l’8 marzo del 1985, le femministe catanesi sfilavano per le vie della città definendosi, come recitava lo striscione di apertura del corteo, Noi utopia delle donne di ieri, memoria delle donne di domani.

Nota: a proposito di memoria storica, segnalo che gli striscioni, i cartelli e i documenti del femminismo catanese dei primi anni ’80 si trovano oggi all’Archivio di Stato di Catania e la loro storia è raccontata nel libro Inventari della memoria. L’esperienza del coordinamento per l’autodeterminazione della donna a Catania (1980-1985), Milano, FrancoAngeli, 2000, a cura di Emma Baeri e Sara Fichera, compagne femministe che ringrazio.

Per chi volesse leggere i testi fondanti del femminismo degli anni ’70 tra Italia, Francia e Stati Uniti, segnalo il libro Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1964-1977), a cura di Deborah Ardilli, Milano, VandA edizioni, 2018.


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