Onorevole Claudio Fava, vicepresidente della commissione Antimafia, negli ultimi tempi a San Macuto si è parlato parecchio della politica siciliana. L’ultimo “caso” è stato quello di Riscossione Sicilia. Non c’è il rischio che la Commissione diventi una cassa di risonanza per ribalte e passerelle strumentali alla lotta politica regionale siciliana?
“Il rischio esiste. Ma il rischio che lo diventi questa commissione Antimafia no. Credo che questa commissione abbia chiaro, come mai prima, come in alcuni casi la lotta alla mafia sia stata esibizione di lustrini in cerca di consensi. Al punto che la commissione ha deciso di istruire un’indagine sugli usi e abusi dell’antimafia. E su questo presenteremo una relazione entro la fine della legislatura. Abbiamo affrontato anche i problemi dal punto di vista normativo come la gestione di fondi a una miriade di piccole associazioni ce si appuntano la spillina antimafia al di fuori di ogni regola. Al di là di questo fatto specifico, in generale c’è l’esigenza di evitare che l’antimafia sia una sorta di autocertificazione. Che ti dà diritto a essere esente da critiche e controlli”.
Ma questo non può diventare una scorciatoia? Tracciare la linea dei buoni e dei cattivi, accollando il guasto solo a singoli, non solleva da un interrogativo più ampio su un problema ontologico, direi fisiologico, dell’antimafia come idea di appartenenza, di parte, che meriterebbe un esame autocritico in generale?
“Ma va in questo senso la discussione che stiamo portando avanti con storici, giornalisti, operatori. Tutti dicono questo: l’antimafia è somma di comportamenti. Se l’antimafia è autoreferenzialità il rischio è quello. Il punto è proprio ontologico: considerare l’antimafia non uno schierarsi ma l’affermazione di atti e fati concludenti. È questa l’unica antimafia che determina risultati. L’altra fa il solletico, muove al riso. Basta pensare alla riunione dei capifamiglia della ‘ndrangheta della Brianza per scegliere il successore del vecchio capo che era stato ammazzato. Si riunirono in un circolo Arci intitolato a Falcone e Borsellino. E le immagini mostrano la cupola della ‘nrangheta della Lombardia che si riunisce sotto il sorriso di Falcone e Borsellino”.
Lei parla anche dell’antimafia “politicizzata”…
“Parlo dell’antimafia come autocertificazione, usata come un biglietto da visita. L’antimafia con le unghie tagliate è servita a costruire carriere o a mantenerle. O addirittura a essere strumento di impunità. Un esempio è Crocetta, che ha rintuzzato ogni critica politica bollandola come un attacco personale e mafioso nei suoi confronti, una specie di giubbotto antiproiettile politico”.
Converrà che Crocetta non è stato il primo a farlo. La strategia dell’antimafia come scudo per le critiche politiche non era già un cavallo di battaglia di Leoluca Orlando vent’anni fa ai tempi in cui lei militava con lui nella Rete?
“Mi pare che Orlando la faccia ce l’abbia messa, lavorando in una città molto difficile con risultati importanti. C’è un abisso sul piano dell’azione amministrativa”.
Il giochino dell’antimafia come scudo e della presunta mafiosità del critico di turno si assomiglia, però…
“Ciò che conta è la qualità dei comportamenti. In questo devi fare i conti col carattere molto egotistico di alcuni personaggi. Ma i casi di cui parlo sono quelli di personaggi che hanno costruito sulla falsificazione la propria icona antimafia, dall’ex presidente di Confindustria Sicilia a quello della Regione siciliana. L’antimafia come una sorta di amuleto”.
E che idea s’è fatto lei del caso Riscossione Sicilia?
“Senza entrare nel merito della vicenda, c’è una lotta politica in Sicilia che utilizza tutti gli strumenti, dove anche la riscossione può diventare uno strumento per punire o per premiare. Le scelte amministrative diventano clave per colpirsi a vicenda. Quando tutto serve per costruire antagonismi, anche la riscossione delle imposte, capisci che c’è una riduzione della politica a un uso assai privato e personale. E in questo chi invoca l’onestà in cima a tutto e la fa diventare bandiera di populismo produce lo stesso effetto. Dallo slogan dell’antimafia si passa a quello dell’onestà da sbandierare. Ma né la parola onestà né la parola antimafia potranno risolvere il rosario di spine della Sicilia”.
Anche perché a forza di slogan non si riesce mai a parlare di contenuti.
“Difficile riuscire a scardinare la politica da questi elementi di vischiosità. Come le scelte dettate da ragioni di consenso o di convenienza, pubblica o privata. Se devi solo pensare a sfamare un esercito di clientes, cambia poco che si chiami Cuffaro, Lombardo o Crocetta”.
Intanto la vostra indagine sull’antimafia procede. Ma continuate anche a indagare sulla mafia.
“Sì, ci sono le emergenze che si determinano. Come le invasioni delle curve da parte di organizzazioni strutturate per gestire il bagarinaggio per una pagnotta di milioni di euro esentasse. È una cosa antica che si scopre adesso. Bisogna porsi il problema di come risolvere la questione. Qua parliamo di mille biglietti, faccio il caso della Juventus, dati al capataz, che magari valgono 80 mila euro e vengono rivenduti al 100 per cento del valore. Moltiplicando queste cifre per tutte le partite, e considerando che è tutto esentasse, poi capiamo come con i soldi del bagarinaggio si paghino tanti affari della criminalità. Indaghiamo su questo e anche sul filone dell’antimafia: al di là delle singole responsabilità di persone indagate o sottoposte a processo, quel che ci interessa è l’aspetto politico”.