La mia Catania clandestina - Live Sicilia

La mia Catania clandestina

Non c’è trucco, non c’è combine. L’illegalità non sgarra mai. Uno vince l'altro perde. Il racconto di una città che si è smarrita. Dal 'Fatto'.

Nessun trucco, nessuna combine. Uno vince e l’altro perde. Dura pochi secondi. Il tempo di un colpo d’occhio. Hanno le froge avvampate, i muscoli sono bozzi di ormoni e i tendini tirano come corde zuppe d’alcaloide. Il crine – raso – è spalmato di anfetamine. Ogni fettina staccata dal loro costato ha l’effetto, a mangiarla, di una botta di cocaina. Più che la febbre, è il flash da cavallo. La cosa più illegale è fatta a regola d’arte. Dura pochi secondi la loro gara. Sono due. Quello che arriva secondo – si parla di corse clandestine – viene sparato con un chiodo in fronte. Macellato, fatto a fette, va in pasto ai ragazzi della movida etnea. La strada è tutta una brace.

Dura pochi secondi il boccone. Il fuoco ne scotta le fibre ferrose da cui goccia, col sangue, tutto l’impasto chimico del dopaggio. Nel tirar tardi, nelle putie (vecchie botteghe) di via Plebiscito, ci si butta in pancia la carne di cavallo fino all’albeggiare, fino a quando – raggiungendo la circonvallazione di Catania, convocati tutti via whatsapp – al passaggio del nuovo giorno si consuma la nuova corrida di calessi due, allibratore uno, folla a non finire mai e un flash. Nessun trucco, nessuna combine. Dura pochi secondi. Sono due con un auriga per ogni campione a tirar le briglia. Tutti i cavalli di questa giostra, bombati di brodaglie – prima o poi, secondi o primi che siano al traguardo – si ritrovano con un chiodo in fronte. Costretti a correre sull’asfalto durano giusto per quattro gare; si spaccano le zampe e perciò – pum! –diventano carne da arrostire. Ecco, è la cosa più illegale ed è fatta a regola d’arte. Nessun trucco, nessuna combine. Adesso sì che è il caso di gridare (come nelle intercettazioni dell’indagine sul Calcio-Catania): “Viva lo sport!”. Qui nessuno bara al traguardo.

Non è certo come andare allo stadio per Catania-Trapani, per sciropparsi il campionato di serie B (considerando comunque che i catanesi assicurano alla squadra della città una cifra come 11.000 abbonati quando – si parva licet – a Milano, per il Milan, in serie A, gli abbonati sono poco più che 17.000). Tutto un trucco, tutta una combine: povero il Catania! L’unico fatto clamoroso al Cibali è credere ancora alla retorica del “tifoso offeso”. Siete offesi? “Lo sapevano tutti, giocavano tutti, ci guadagnavano tutti!”. Così dicono, e ridono. Non è più l’epoca del presidente Angelo Massimino, ignorante ma onesto. Neppure più l’epoca di Candido Cannavò.

Sono le 4,30 e sono qui, a Catania, a guardare i cavalli correre, per via di un tweet: “L’unica cosa pulita sono le corse clandestine dei cavalli alla circonvallazione”. È di Ottavio Cappellani, il cinguettio. Scrittore, autore diSicilian Tragedi, Cappellani in pochi caratteri spiega il vuoto nulla in cui è precipitata Catania. È la già nota Milano del Sud, Catania, è una delle prime città d’Italia nell’assicurare a Sky una ricca platea, ma a osservarla dall’alto dell’aereo non c’è una sola gru. Insomma, non si lavora. E a guardarsi intorno non sembra che si siano ancora alzati in volo gli aerei annunciati da Enzo Bianco, il sindaco. Gli aeroplani dovrebbero collegare la città con Palermo e però Giovanni Pizzo, l’assessore regionale alle Infrastrutture, a precisa domanda di Meridio, un sito giornalistico –“Il volo Catania-Palermo è stato accantonato?” – risponde: “È stata una minchiata”. Stessa sentenza s’impone per la “bretella” promessa quattro mesi fa da Graziano Delrio, ministro alle Infrastrutture. Doveva collegare l’autostrada Pa-Ct dopo il cedimento del pilone dal ponte Himera. Il ministro, precipitatosi da Roma, aveva tranquillizzato tutti: “La costruiremo in tre mesi”. Niente, naturalmente. Nella Sicilia dove ogni quattro strade una è spezzata, l’isola resta segata a metà. Ettore Leotta, assessore alla Funzione pubblica, lascia la giunta di Rosario Crocetta: “Sono stanco di viaggiare. In questo momento – dichiara – sono sul treno diretto a Catania e poi dovrò cambiare per Siracusa. Non ce la faccio più”.

I negozi hanno abbassato le saracinesche e se è vero che ci abita l’appena eletto presidente di Unioncamere, Ivan Lo Bello – opera a Catania anche Mimmo Costanzo, costruttore – un imprenditore che sia normale imprenditore in tutta la città non c’è: Antonino Pulvirenti, travolto oggi dallo scandalo sulle partite acquistate del Catania di cui era presidente, è crollato. Ha comprato una squadra di calcio, tre alberghi a cinque stelle e una compagnia aerea con dieci airbus partendo dai supermercati. Mario Ciancio, il più importante editore, proprietario deLa Sicilia, si ritrova con 17 milioni di euro sequestrati, e comunque un marchio, una ditta, una qualunque bottega che renda onore al sangue fenicio tutto di commercio e iniziativa in città non c’è più. Più che Milano, Catania è come Parma – per la crisi della squadra di calcio, non certo per le partite comprate – e però non con un’azienda come Parmalat con cui, nel bene e nel male, identificarsi al punto di farne il romanzo di dannazione (e resurrezione).

Catania non ha una struttura finanziaria e commerciale su cui innervare il proprio destino e l’unica autobiografia – quella che comincia coi Cavalieri dell’Apocalisse mafiosa– finisce nella cronaca del sottosviluppo e della sottocultura. Più che Milano, Catania è come Gela. Le baby-gang si sono impossessate del buio e le cronache sono un repertorio di violenza e spaccio. È un piccolo indotto, quello della droga, che nella città dà lo stipendio a 2.000 persone. La scena madre è sempre questa: “Vuoi del fumo?”. Anche a rispondere no, la replica è una sola: “Tu te lo compri lo stesso, dammi i soldi”. Anche a non volerglieli dare i soldi, se li prendono egualmente. Sono sempre legnate. E comunque consegnano la droga.

I Cavalieri, dunque. Così, Pippo Fava, da I Siciliani – esempio di giornalismo che ha fatto la storia – battezzava Francesco Finocchiaro, Gaetano Graci, Carmelo Costanzo e Mario Rendo. Erano cavalieri del lavoro, i ras dell’edilizia a cavallo degli anni ‘70 e ‘80, ed erano a capo del sistema economico di una città che ancora oggi coinvolge 1.200.000 abitanti. Processati e poi assolti, i cavalieri restano sullo sfondo di una città che da laboratorio politico – da Rino Nicolosi, presidente della Regione, unico vero protagonista dell’epoca democristiana – oggi sprofonda nell’impossibile redenzione se perfino Enzo Bianco, dopo la catastrofe di Raffaele Lombardo, deve faticare nella riedizione di se stesso.

Cappellani mi porta col suo scooter in viale Odorico da Pordenone. Siamo senza casco (col casco ci si va quando si deve andare a fare una rapina). Sono le 4.30 e le automobili in transito sono poche. Il tappo del Tondo Gioeni, lungo la circonvallazione, concede la tregua alla città che dorme. Alle 7.00 del mattino lì ci sarebbe già da impazzire, un vespaio di lamiere, la scena ora è tutta di adrenalina. Un gruppo di ragazzi alla guida di motorini fa da apripista mentre dietro due automobili affiancate bloccano il passaggio di macchine estranee al torneo. Lo spazio è pronto, la direzione della corsa è segnata. L’allibratore ha preso le scommesse e il pubblico si posiziona lungo i marciapiedi e al traguardo. Non c’è trucco, non c’è combine. L’illegalità non sgarra mai. Se al cavallo che arriva secondo spetta un chiodo in testa al furbo può capitare di peggio. Sono pochi secondi. Il tempo di un colpo d’occhio. Uno è primo e l’altro va arrosto.

 


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