Scrivo queste righe poco prima del voto siciliano. Quando saranno lette, temo che avremo confermato un ceto politico stagionato, inadeguato, talvolta corrotto e spesso inquisito. Una partitocrazia da rottamare, e non solo in Sicilia, ha inflitto e presumibilmente continuerà ad infliggere al paese, alla regione, alle città immani danni finanziari, sociali e morali. Ma guai a metterla in discussione: si verrà tacciati di moralismo e qualunquismo, bandiere che per parte mia sono pronto a sventolare.
All’indomani dell’unità d’Italia furono scrittori come De Roberto, Pirandello e i tanti autori di “romanzi parlamentari” a denunziare, inascoltati come inascoltata è sempre la letteratura, il trasformismo delle classi dirigenti e il tradimento delle idealità risorgimentali. Mezzo secolo fa era uno Sciascia a smascherare le menzogne e le infamie di un “contesto” cinico e omertoso, o dei “professionisti dell’antimafia”: e allora come oggi fu ed è sommerso da scomuniche e anatemi. Parlare di moralità, di servizio, di cultura in politica è come bestemmiare in chiesa.
Sterile indignazione, tuttavia, la mia e la nostra, se non la corrediamo di esempi e di auspici che riguardino l’ambito in cui può esercitarsi il nostro impegno etico e civile, e dunque questa città in cui ora si affaccia, ricco d’idee e di speranze, “LiveSicilia”. Ne propongo due, allora, di queste significative esperienze.
La prima. Sono stato assessore alla cultura nella giunta comunale guidata da Enzo Bianco. Erano le prime giunte frutto, nel ’93, dell’elezione diretta dei sindaci, all’indomani del terremoto di Mani Pulite. La politica tradizionale e lo strapotere dei partiti tacevano, vegetando nelle patrie carceri o meditando in disparte future vendette. E perciò i sindaci eletti dal popolo (Bianco, Orlando, Rutelli, Cacciari, Illy, Castellani, Bassolino) potevano scegliere i loro assessori per le loro competenze professionali e il loro profilo etico anziché per le imposizioni di yesmen e faccendieri da parte dei partiti e dei “poteri forti”. Fu una bella stagione di scoperta e di esplosione dell’enorme serbatoio di creatività, soprattutto giovanile, finora confinata nei sotterranei d’una città che la segregava così come teneva sotto chiave i suoi monumenti.
Fu l’invenzione della movida e la riconquista d’un centro storico finora oscurato da un malavitoso coprifuoco; fu la prima apertura dopo decenni di intere parti del Castello Ursino e dei suoi tesori; fu la fulminea apertura d’un museo finalmente dedicato al grande scultore catanese Emilio Greco, le cui donazioni erano state fino a quel momento rifiutate; fu la scoperta di spazi storico-artistici da rivitalizzare e destinare ad attività culturali, come il disastrato palazzo Platamone; fu la realizzazione della Casa dei Popoli, luogo di accoglienza, assistenza e scambio culturale per le etnìe immigrate; fu la una stagione di grandi eventi, dalle prime kermesse musicali regalate a un assessorato privo di fondi dalle band più sperimentali e alterative, fino alle memorabili Estati catanesi dirette da Franco Battiato, che fecero di Catania un esempio nazionale e attirarono flussi di turismo culturale.
Parlo solo, s’intende, della politica culturale. E ne parlo non per imporre inutili nostalgie a una città immemore, ma per dire quanto è possibile fare affidandosi alle energie e alle passioni così vive nel territorio e affrancandosi dai compromessi e dai mercimoni della malapolitica: che da lì a poco tornò alla carica, più virulenta che mai.
E passo al secondo esempio: l’università, nella quale opero confortandone l’agonia ma continuando a sperare in un Paese che sia in grado, finalmente, di credere (e investire) nel futuro. Mai così screditata e maltrattata, l’università: e soprattutto le discipline umanistiche, ridotte a svendersi sul mercato e polverizzate in raccolte-punti (i famosi crediti, il 3+2, etc.) come quelle per il servizio da tè. Il pensiero critico, appannaggio di queste discipline e votato alle idee e ai valori, alla demistificazione e al dissenso, è dichiarato improduttivo a meno che non sia asservito a funzione aziendale e giaculatoria di asettiche nozioni. E intanto intere generazioni di giovani sono sacrificate da un’istituzione geriatrica dalle porte sbarrate e da maestri ancora appassionati ma ridotti a passacarte.
Ma l’esempio di cui dicevo è virtuoso e controcorrente. Dico della mia ex Facoltà di Lettere (oggi Dipartimento, in ossequio a una riforma che gattopardescamente tutto cambia affinché nulla cambi davvero) e della straordinaria fioritura di attività culturali che ne hanno arricchito gli ultimi anni di vita. Festival tematici, rassegne cinematografiche, mostre, concerti, feste studentesche aperte al quartiere e alla città, hanno animato aule, corti e chiostri del magnifico monastero benedettino, proponendo non solo una didattica innovativa, interattiva, multimediale (e come tacere del contributo di “Officine culturali” e del laboratorio universitario “La Musa”?) ma un intenso rapporto con il quartiere, e proponendosi come soggetto culturale capace di recitare un ruolo da protagonista in una città dove la cultura è da troppi anni trascurata dalle pubbliche amministrazioni.
Un esempio forse modesto ma certo significativo. E tanto più perché ha coinvolto gli studenti, non solo nelle feste affollatissime ma in occasione di eventi da loro stessi ideati e gestiti, come quelle rassegne di poesia con illustri presenze nazionali ed europee realizzate per un biennio in aule gremite e frementi. E se proprio la poesia (dico la poesia, tra le arti la più appartata e negletta, dagli editori così come dai media e dagli organizzatori di cultura) ha attirato e coinvolto masse di giovani, direi che c’è ancora speranza per questa città e per questa nazione decrepite e così poco lungimiranti.