Cronaca

La nomofobia, male di questo tempo

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13 Marzo 2021, 16:09

7 min di lettura

Rosamaria Alibrandi

Un saggio apparso nel 2020 su “Computers in Human Behavior Reports”, Nomophobia and lifestyle: Smartphone use and its relationship to psychopathologies, evidenzia, tra le conseguenze negative, fisiche e psicologiche dello spasmodico uso del cellulare, una nuova dipendenza: la nomofobia, ovvero la paura di stare lontano dal proprio smartphone. Il termine è composto dalla abbreviazione della locuzione inglese no-mobile (mancanza del cellulare) aggiunto al lemma fobia, e indica l’ansia, il disagio e lo stress che proviamo senza lo smartphone a portata di mano. La nomofobia è, difatti, la paura di non potere, per qualsiasi motivo, usare il telefonino, con la conseguenza di restare disconnessi, isolati dal mondo, anche se quel mondo è virtuale. Perché, quel mondo, è l’unico che ci dà conforto. L’ansia del distacco alimenta la dipendenza dallo smartphone, dipendenza che, a sua volta, nutre la paura di poterne essere privati, innescando una reazione a catena senza soluzione di continuità. La ricerca, condotta su 495 partecipanti dai 18 ai 24 anni, mostra il legame tra nomofobia e sintomi psicopatologici. Ipersensibilità, senso di inferiorità, compulsione, sono stati identificati come forti predittori della sindrome.

Nel palcoscenico sociale, anche il fenomeno del phubbing, che ci vede attori quando lo pratichiamo, e comparse quando lo subiamo, non è una azione del tutto volontaria ma una delle conseguenze della nomofobia. La sintomatologia evidenziata nella situazione di mancanza di contatto con uno smartphone cresca da disagio e nervosismo fino ad ansia e angoscia; ma come accade che l’uso del cellulare trascenda la normalità e sfoci nella patologia?

Il primo errore è non riconoscere l’uso estremo del telefono come un problema, specialmente quando riguarda noi stessi. Si sottovaluta quanto sia facile, dal momento che lo smartphone offre compagnia continua e momenti di gratificazione, acquisirne la dipendenza. La possibilità che un uso misurato diventi uso abituale, è innescata da stimoli interni ed esterni: ad esempio è dimostrato che anche il solo gesto di controllare le notifiche, avendo in sé una valenza compensativa, rilascia una sensazione piacevole che spinge agli assuefacenti controlli successivi. La no-mobile fear è diventata una realtà conclamata perché l’uso dello smartphone ha un ruolo significativo nel produrre sensazioni di benessere, e ha un effetto sul cervello simile a quello della droga. La ricerca scientifica dimostra che scoprire quanto siamo popolari, postare e ottenere i like sui social, attiva gli stessi circuiti dopaminergici che vengono attivati mangiando cioccolato o fumando: le risposte social agiscono da autovalutatori, e, se positive, da fattori innalzanti la nostra autostima. Un distacco improvviso del social networking può causare segnali che assomigliano ai sintomi di astinenza da farmaci o da alcol.

I comportamenti analizzati sono correlati alla FoMO, individuata già nel 2013 in uno studio condotto su un campione internazionale di partecipanti, diventato un classico, dallo psicologo oxoniano Andrew Przybylski, il quale, scorrendo la gamma di attività online nelle quali siamo coinvolti, rilevò che le risorse tecnologiche hanno la valenza positiva di fornire una moltitudine di opportunità di interazione, e quella negativa di trasmettere più opzioni di quelle che possiamo seguire. Questa duplice natura dei social media ha guidato l’enucleazione del concetto di Fear of Missing Out, letteralmente la paura di esser tagliati fuori, ovvero la pervasiva apprensione che gli altri svolgano attività piacevoli di cui non siamo partecipi. La FoMO, caratterizzata dal desiderio di rimanere continuamente connessi, è definita da Przybylski un’“ansia sociale”, provocata dal bisogno di essere sempre informati su tutto ciò che stanno facendo gli altri e dalla preoccupazione ossessiva di condividere le loro attività gratificanti.

La recentissima ricerca dal titolo Impact of perceived social support on Fear Of Missing Out, pubblicata nel gennaio 2021 su “Current Psychology”, rivela come la FoMO sia un fenomeno pervasivo tra i giovani, che può influenzarne negativamente la salute fisica e mentale. L’indagine, che ha coinvolto 806 studenti universitari in Cina, ha monitorato i bisogni psicologici di base, lo stress, la diffusione della FoMO e il supporto sociale percepito rispetto al problema. I risultati, nel fornire alcune implicazioni teoriche e pratiche per la prevenzione, hanno evidenziato che la paura di perdersi nuove esperienze può essere considerata una sottocategoria dell’ansia. Gli individui con un alto livello di FoMO hanno la probabilità di sviluppare dipendenza da cellulare e internet, comportamenti di phubbing, scarsa qualità del sonno, narcisismo e altre condotte disadattive. A fronte di ciò, la scienza invita le istituzioni a sviluppare programmi di prevenzione e di intervento mirati a colmare i deficit nel sostenere adeguatamente bisogni psicologici evidenziati a livello sociale.

Il ritorno ai contatti reali richiede, altresì, un impegno personale. Gli psicologi suggeriscono di creare, anche in casa, zone “smartphone free”, di riprendere a trascorrere tempo condiviso, specie tra genitori e figli, stabilendo di non usare i dispositivi elettronici per un certo lasso di tempo, di praticare sport, di fare una passeggiata ogni tanto, di mangiare assieme posando il telefono in un’altra stanza. Un altro consiglio riguarda la disattivazione delle notifiche, che taciti, finalmente, il bip che governa dispoticamente la nostra giornata. Perché quel suono (sappiamolo!) innesca automaticamente la compulsione a controllare il telefono. Le interazioni positive alla fine andranno a beneficio della nostra salute mentale e del nostro senso di appartenenza. Appartenenza, non connessione.

Una riflessione è d’obbligo. Non si inizia alcun cammino virtuoso senza una presa di coscienza dello stato di fatto, senza un esame di realtà. E allora: viviamo in una società del tutto connotata dall’ informazione e dalla velocità della stessa, nella quale, al di là del denaro e della politica, il vero potere sembra identificarsi con la capacità di produrre e distribuire conoscenza a tutti i livelli della scala sociale, in quanto il sistema-rete consente la creazione di informazioni dal basso come dai vertici, e persino la diffusione di false notizie o di contenuti illegali. Il sapiente diffonde, ma diffonde anche l’ignorante; diffonde anche chi mente, o chi delinque. Dobbiamo prenderne atto.

Il terzo millennio è tecnologico, è permeato dai media, basiamo sulle informazioni diffuse dalle piattaforme di comunicazione online la nostra quotidianità.

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Viviamo in una “network society”, locuzione coniata con geniale intuizione dal sociologo Manuel Castells nel lontano 1996. Nell’opera tradotta in tutte le lingue, La nascita della società in rete, preconizzò una società strutturata in reti aperte, in cui circolano persone, notizie e una montagna di denaro, ove lo spazio dei flussi è precluso a chi non ha accesso a Internet o non è in grado di usarlo.

Ora, dal momento che Internet è divenuto il principale mezzo di diffusione di esternazioni e dibattiti, la tendenza alla partecipazione online può solo crescere. La società di rete ha reso disponibile un numero spropositato di gruppi sociali a cui fare riferimento, tramite i quali raccogliere pareri su tematiche disparate, integrandoli con le proprie convinzioni, col risultato, non sempre evidenziato, di influenzare i mercati condizionando le decisioni dei consumatori. La raccolta delle opinioni si è estesa a una platea mondiale. Di converso, la rete è una bombarda che spara suggerimenti a ripetizione.

Il gioco si fa duro; che i duri comincino a giocare.

Se, ci dicono, siamo in una fase sperimentale; se, però, questo esperimento dura da un ventennio; se premesse e fase non lasciano intravedere conclusioni diverse da quello che è sotto gli occhi di tutti, ovvero che bisogna governare questo cambiamento epocale per non esserne travolti, agiamo, almeno nel nostro piccolo, per preservare la specie dell’homo sapiens.

Un quesito sembra insolubile? Viviamolo come una sfida. Dopo tutto, porre domande delle quali si conosce già la risposta equivale a “vincere facile”. Supportato dai “potenti mezzi” qualunque sciocco può sciorinare una googlerisposta. Se la latta riluce come l’oro nell’acqua del fiume; la speranza è che un lucido salmone guizzi controcorrente.

Nello scenario di un sogno che trascende in cupo incubo, tratteggiato coi toni plumbei dei teatri di guerra, Dostoevskij colloca Dmítrij Karamazov, dilaniato dalla sequela dei suoi concitati perché: “Ma perché questo? Perché? Continua lo sciocco Mítia”. Ma quello sciocco è un Uomo. E dalla sofferenza palpabile degli interrogativi senza risposta, mentre “dentro di sé sente che per quanto chieda follemente e senza un senso, è proprio questo quel che vuole chiedere, e che è proprio così che si deve chiedere”, emerge il desiderio di farsi carico della responsabilità universale, della quale, in quanto essere umano, è partecipe.

Se l’elettronica dà a domande di senso comune risposte plausibili quanto ovvie, è alla natura umana che dobbiamo continuare a porre domande apparentemente “senza senso”, capaci tuttavia di mettere a fuoco valori assoluti, immutabili e condivisi, avendo come unico “sensore” la nostra coscienza.

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13 Marzo 2021, 16:09

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