Non facciamo i phubber (o almeno proviamoci) - Live Sicilia

Non facciamo i phubber

La sindrome di Stoccolma verso il cellulare fa sempre più vittime. Ecco cosa c'è da sapere.
ROSAMARIA'S VERSION
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7 min di lettura
Rosamaria Alibrandi

Presti vaga attenzione ai discorsi degli altri, non inizi a mangiare se non pubblichi la foto del piatto, gestisci un litigio con tua moglie mentre commenti un post su Facebook, assisti a una cerimonia e ti improvvisi reporter, ti arrabbi se ti ingiungono “posa quel telefono!”? Sei un phubber e nemmeno furbo. I maniaci di ultima generazione, difatti, hanno sviluppato la capacità di scorrere lo schermo col pollice sinistro a braccio snodato e di estendere il muscolo obliquo inferiore dell’occhio cosicché lo strumentale strabismo consente di controllare messaggi e social: lo sguardo resta fisso e la mente vola. Non si tratta di un nuovo sport individuale che si pratica all’aperto, con tanto di mascherina e a distanza. Ma la distanza la crea, eccome. Distanza dai familiari, dagli amici, dai conoscenti, dai colleghi. Distanza da noi stessi e dalla partecipazione attiva a eventi cui presenziamo solo col nostro materiale involucro di viscere e coscienza.

Ma, imperterriti, facciamo, e subiamo, phubbing.

Il lemma, dall’inglese phone (telefono) e snubbing (snobbare), definisce l’azione di trascurare gl’interlocutori per consultare in modo compulsivo un dispositivo elettronico. Il neologismo non è poi così nuovo, considerato che già nel 2012,nell’Università di Sydney, si coniò il termine phubber promuovendo nel contempo la campagna Stop Phubbing per segnalare sulle piattaforme social chiunque venisse beccato a utilizzare lo smartphone mentre era con amici, al bar, a cena, persino al cinema o a teatro. I risultati dimostrarono che un intervistato su tre ammetteva di aver fatto phubbing, in particolare rispondendo a una telefonata mentre era in compagnia (il 27%), o collegandosi ai social network (il 16%), senza alcuna remora riguardo al luogo pubblico in cui si trovava (il 63%) e preferendo essere biasimato per il comportamento scortese piuttosto che non rispondere a un messaggio (il 37%).

Marzullianamente, lo smartphone è il nostro schiavo o il nostro padrone?

Dieci anni fa, snobbare gli altri in pubblico guardando sempre il cellulare non era così usuale. Oggi, un’inchiesta dovrebbe piuttosto provare a cogliere sul fatto, per premiarlo, chi tiene il cellulare in borsa o in tasca. Il phubbing, come comportamento individuale e collettivo, è in aumento, testimone di una diffusa dipendenza che induce ad astrarsi da un ambito reale per comunicare via chat, per chiosare un post o apporre un like; esprime la necessità dominante di compagnia virtuale proprio mentre si ignora quella fisica.Il phubber non solo trascura gli altri sia al lavoro che nel tempo libero, ma anche il partner in camera da letto, per cui è intuitivo come fare phubbing intervenga nelle dinamiche di coppia, incidendo sulla fiduciaverso l’altro e sulla personale autostima.

La vita è un’inopportuna distrazione dal nostro cellulare?

Sarebbe comico, se non avesse in sé le stigmate della tragedia, il titolo della ricerca che inaugurò un fluente dibattito scientifico qualche anno fa, My life hasbecome a major distraction from my cellphone, di James Roberts e Meredith Davis, apparso nel 2016 su “Computers in Human Behavior”, che monitorava gli effetti del phubbing sulle relazioni amorose. Se la tua vita è diventata la più profonda distrazione dal tuo telefono, avvertivano i ricercatori, sei al capolinea del rapporto di coppia. La successiva indagine condotta dai medesimi autori sul patologico abuso dello smartphone, assurto a punto focale dell’attenzione, pubblicata su “Journal of the Association for Consume Research”e dedicata agli effetti collaterali del “phubbing”,giunge a un’amara conclusione: chi subisce simili trattamenti tende a rifugiarsi proprio nell’uso dello smartphone, alla disperata ricerca di quell’attenzione che gli viene negata, innescando così, più che un circolo vizioso, una reazione a catena. Il mio compagno preferisce interagire con un display? A mia volta, gli dimostro che ho spazi e soddisfazioni sui social.

Siamo di fronte a una sindrome di Stoccolma digitale.

Se qualcuno ti snobba, puoi sentirti rifiutato, escluso, uno scarto umano. Fin qui ci arriviamo, pur non essendo scienziati; ma il problema è quanto sia devastante l’impatto sulla salute mentale del “phubbed”, che avverte il bisogno incontrollabile di tuffarsi nei social per ricavarne almeno una compensazione virtuale del senso di vuoto. Se la depressione è in agguato a livello individuale, il recente Observing Smartphone-Induced Social ExclusionGenerates Negative Affect, Stress, and Derogatory Attitudes(di Nuñez, Radtke e Eimler), apparso nel 2020 su “Cyberpsychology”, dimostra l’influenza del phubbing come fenomeno pervasivo della comunicazione pubblica e concettualizza il comportamento come atto di esclusione sociale che, minando quattro bisogni fondamentali – appartenenza, autostima, esistenza significativa, controllo -, provoca effetti negativi ben oltre le singole interazioni.

Dal phubbing si guarisce?

La vera domanda è: vogliamo davvero una cura? Rinunciare al multitasking, usare in modo consapevole tecnologie e servizi digitali, servirci degli strumenti senza restarne asserviti, potrebbero essere, nella pratica, punti di partenza importanti per riumanizzare i rapporti. Gli scienziati sociali dicono che il phubbing è una “invadente normalità”. Una parte significativa della popolazione mondiale usa gli smartphone per condurre la propria vita quotidiana. Molte persone, semplicemente, non possono vivere senza l’onnipresente oggetto del desiderio. Siamo sempre più connessi al mondo attraverso il cellulare, mentre, per uno sgradevole contrappasso, ci stiamo allontanando l’uno dall’altro, creando relazioni superficiali e insoddisfacenti. Nessun dialogo virtuale può sostituire una conversazione, nessun cuoricino un abbraccio. Originariamente ideati per essere strumenti di comunicazione, i cellulari ironicamente finiscono per creare problemi alla comunicazione stessa, e quindi alle relazioni affettive.

Se nel recente passato capitava frequentemente di uscire ed essere snobbati da qualcuno che guardava il telefono come se ne dipendesse la vita, oggi che a causa della pandemia è raro che ci si incontri di persona, potrebbe sembrare che “fubbizzare” gli altri sia più difficile; invece, accade che le vittime principali della nostra disaffezione al mondo siano le persone che più ci sono fisicamente vicine e che più ci dovrebbero stare a cuore. Nel corso del lockdown questo comportamento radicato ci trasforma tutti in separati in casa, non solo dal coniuge, ma dai figli, o, rovesciando la visuale, dai genitori.

Una stima di quanto tempo si trascorra col telefono in mano?

Secondo il report di Dscout di un paio di anni fa, l’utente medio toccava il suo dispositivo 2.617 volte al giorno; ma lo studio ha evidenziato che gli utilizzatori estremi, pari al 10%, usavano i loro telefoni 5.400 volte al giorno, ovvero ogni 16 secondi. E non c’era l’alibi della pandemia.

Il phubber vive in una doppia dimensione. La sua indefessa attività in rete interseca il piano reale con quello virtuale scivolando sempre più verso ciò che è esclusivo, privato, abbandonando la sfera pubblica, rivelata e accessibile dagli altri, sia nella dimensione domestica che in quella ben più ampia della convivenza civile. Sconfina nella dissimulazione, e non vi è nulla di affascinante in questo mistero che avvolge chi vive, con la cerchia degli amici virtuali, perennemente nella luce fredda di uno schermo.

È un dato generale, pur se in contrasto con la nostra inesauribile storia di animali sociali. Il club sempre più vasto dei muti digitali vive nello spirito di questo tempo, e chi, ancora, è partecipe dello spirito dei tempi, assedia una cittadella vuota. Il mistero cela il nulla.

Negatività, ansia, ostilità e somatizzazione: leggiamo i risultati, li troviamo coerenti con i dati di realtà, ma la dipendenza dal cellulare è fortissima. Accenderlo, il primo pensiero al mattino; guardarlo ancora una volta, l’ultima carezza della sera. Prima di trasformarci in zombie ricordiamo vagamente che sia su iPhone che su Android sono disponibili menu per verificare quanto tempo passiamo davanti allo smartphone, con la possibilità di impostare anche dei limiti (utili soprattutto per i minori o per le persone patologicamente legate al cellulare), ma sono funzioni di cui riteniamo di poter fare ameno. Il phubber è sempre qualcun altro.

La questione, più che agitata, andrebbe agita.

Nel lontano 1967, al diciassettesimo Festival di Sanremo, edizione passata tragicamente alla storia per il suicidio di Luigi Tenco, il geniale Giorgio Gaber presentò una “canzone di protesta, che non protesta contro nessuno, anzi siamo tutti d’accordo”, dal ritornello orecchiabile: “e allora dai, e allora dai, le cose giuste tu le sai, e allora dai, e allora dai, dimmi perché tu non le fai”.

Siamo tutti d’accordo. Cosa è giusto fare, ci è noto, fare quel che è giusto, è tutta un’altra cosa.

Lo so, prestare attenzione continua allo smartphone, distrae dall’effettiva interazione. Ma lasciatemi controllare un minutino se ci sono notifiche e, soprattutto, quanti like ha preso il post di Micio sull’albero.

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