C’è un provvedimento che unisce tutti. Che unisce tutti, però, nella protesta, nel dissenso. Una protesta che svela qualche contraddizione del governo regionale. E un po’ di “testardaggine politica”. Il presidente Musumeci ha deciso prima di Pasqua di vietare le consegne a domicilio nelle domeniche e nei giorni festivi. Un passo in più rispetto alle ordinanze romane. Un modo, forse, per dire che in Sicilia si fa come diciamo noi.
E per carità, il governatore si sta assumendo responsabilità enormi e inedite. Ed è giusto che decida, nel caso in cui si dovesse sbagliare qualcosa, di sbagliare da sé e non a causa d’altri. C’è, però, anche una Sicilia che ‘subisce’ suo malgrado. Sono quei siciliani per i quali la “curva dei timori” cala un po’ dal punto di vista sanitario e s’alza ogni giorno di più da quello economico.
E così, la scelta del governo appare a tanti al limite dell’incomprensibile. E non solo perché gli effetti pratici in qualche caso sono coincisi con lunghe e pericolose – queste sì – file davanti al supermercato nei giorni antecedenti alle chiusure, ma anche perché non si spiega – ci basiamo sul buon senso, non siamo scienziati né noi né i politici – come possa essere più pericoloso ricevere una pizza sul pianerottolo piuttosto che trovarsi gomito a gomito con un’altra persona di fronte al bancone dei salumi o dei surgelati.
E non è solo una questione che riguarda i cittadini e la loro possibilità di rifornirsi. È un dubbio che accompagna tanti operatori. Basterebbe parlare con loro. Basterebbe ascoltare le loro preoccupazioni enormi legate alla difficile ripartenza, ma anche al triste presente. Pasqua, Pasquetta e poi il 25 aprile e la domenica successiva sono quattro giorni di “inattività forzata” nell’arco di due settimane. E non è poco. Basterebbe chiedere a chi, ad esempio, continua a pagare l’affitto del proprio locale, chiuso – giustamente – per evitare contagi. Le consegne a domicilio, in qualche modo aiuteranno questi operatori, specie in giornate in cui si potrà sopperire così alla voglia legittima di scampagnate, di evasione (evasione intelligente, cioè rigorosamente a casa). Quei giorni di consegne, insomma, vanno viste come fossero pezzi di affitto, di stipendi, di contributi, di forniture già acquistate, di bollette da pagare.
Poco o nulla dirà qualcuno. Ma nello scenario attuale, il poco inizia a diventare tanto. E forse è meglio non sottovalutare la cosa. Del resto, se non si ascoltano pizzaioli e ristoratori, negozianti e commercianti, basterebbe guardarsi attorno. Mai come in questo caso, anche la politica, oltre alle categorie produttive, è unita contro questo provvedimento. Ci sta che sia l’opposizione a gridare: gli ultimi sono i Cinquestelle oggi, prima era stato il turno del Pd che aveva definito il governo “schizofrenico” e altri esponenti di minoranza. Il gioco delle parti, si dirà. Se non fosse che persino il presidente dell’Assemblea regionale siciliana Giranfranco Micciché, pur con toni pacifici, ha dovuto ammettere di essere contrario a questa disposizione. Micciché è, tra l’altro, il leader in Sicilia di Forza Italia, il partito più grande del centrodestra che sostiene Musumeci. Ed è in folta compagnia. È dei giorni scorsi la nota di otto deputati di maggioranza, provenienti dagli altri partiti del centrodestra: la Lega, i Popolari autonomisti, l’Udc che hanno chiesto di revocare quel pezzo di ordinanza. Tutti uniti contro il provvedimento. Non sarebbe il caso di ripensarci? Anche perché la questione è politica, ma non nel senso deteriore del termine. Contro quel divieto si sono schierati, tra gli altri, Confcommercio, Confesercenti, Cna, Confartigianato, Casartigiani, Claai e altri rappresentanti di categoria.
E allora, perché non derogare a se stessi, per una volta? Perché non ascoltare una richiesta che appare fondata, sensata, civile? Tornare indietro, in questo caso, non suonerebbe come una sconfitta. Ma come un gesto di ascolto. Un modo per avvicinarsi ancora di più ai siciliani. E oggi ce n’è davvero bisogno.