“Io posso anche sbagliare ma sono del parere che nel momento in cui si avanzano accuse gravissime riguardanti personaggi di un certo spessore, o hai gli elementi veramente concreti oppure è inutile azzardare ipotesi indagatorie, ipotesi di contestazione di reato, che inevitabilmente si risolvono in un’ulteriore crescita di prestigio nei confronti del soggetto che diventerà la solita vittima della giustizia… nel nostro paese”. Sono le parole di Giovanni Falcone risalenti al 1991 in risposta all’accusa di tenere le carte nei cassetti e il riferimento, in particolare, era a Salvo Lima. Cosa c’entra Cuffaro con Salvo Lima e Falcone? In una parola, il metodo. La condanna definitiva dell’ex presidente siciliano – è debito d’onestà ammetterlo – rappresenta la vittoria del metodo applicato dal pool di Palermo di allora, guidato da Piero Grasso, oggi superprocuratore antimafia.
E, non a caso, queste parole di Giovanni Falcone sono state citate da Giuseppe Pignatone, in un’audizione alla commissione antimafia, in risposta alla questione delle indagini sul versante mafia-politica. Oggi procuratore capo di Reggio Calabria, Pignatone coordinava il gruppo di sostituti che si è occupato del caso Cuffaro: Maurizio De Lucia, Michele Prestipino e Nino Di Matteo. Un fascicolo aperto con quattro pm e che alla fine del suo percorso, alla requisitoria del primo grado, è arrivato con due soli sostituti causando una spaccatura all’interno della procura, probabilmente, ancora aperta.
Lo strappo decisivo si sarebbe consumato il 16 luglio 2004, data in cui si chiudono le indagini. Su 18 dei 19 indagati sono tutti d’accordo, su Cuffaro no. Il reato da contestargli, infatti, è stato derubricato da concorso esterno a favoreggiamento aggravato. Gaetano Paci, il pm che ha condotto l’inchiesta “Ghiaccio”, uno dei filoni da cui parte l’indagine su Cuffaro, non è d’accordo. Il motivo, in sostanza, è che se al tramite delle informazioni (Miceli) si applica il concorso esterno, alla fonte non si può applicare un reato minore. Viene convocata una riunione della Dda in cui la questione viene posta a livello collegiale. Alla fine Paci non firma ed esce fuori dal processo. E la frattura in procura diventa un solco insormontabile: chi era presente racconta che la maggioranza si trovava d’accordo con Paci.
L’ulteriore defezione si ha nel dicembre del 2007. Miceli, il tramite fra Cuffaro e Guttadauro, è stato condannato per concorso esterno. Il pm Nino Di Matteo, titubante quando si decideva il capo d’imputazione, chiede di cambiare in corsa il reato da contestare a Cuffaro. Fino ad allora aveva condotto il processo in tandem con De Lucia e lascia il banco dell’accusa dopo il rifiuto dei suoi colleghi. Oggi conduce col pm Francesco Del Bene il processo per concorso esterno che si svolge con rito abbreviato a Palermo.
Ma la vera deflagrazione avviene durante la requisitoria del primo grado. Il pm Maurizio De Lucia spiega alla corte i motivi per cui Cuffaro doveva essere condannato per favoreggiamento aggravato e non per concorso esterno. “Manca il requisito di base del concorso esterno in associazione mafiosa, nel senso di una iniziativa dell’imputato volta a costruire un accordo con l’associazione criminale”. Un’uscita che fa letteralmente infuriare uno degli aggiunti, Alfredo Morvillo, che si era schierato con Paci. “Quelle espresse in aula su Cuffaro sono valutazioni individuali dei due sostituti titolari del processo” ha detto a bruciapelo (10 minuti dopo). Perché intanto, con Francesco Messineo a capo della procura, il fascicolo per concorso esterno era stato riaperto.
La spaccatura ha portato anche i legali di Cuffaro a presentare un’istanza di remissione per “legittima suspicione”, il clima a palazzo di giustizia non era fra i più sereni. Richiesta che non verrà accordata e l’esito del processo sarà una ‘mezza vittoria’ per la procura di Palermo: favoreggiamento sì, ma non aggravato. Ma non sarà quella la sentenza che farà la storia. La corte d’Appello, infatti, re-integra l’originale imputazione e applica a Cuffaro l’aggravante dell’agevolazione mafiosa: favorendo Guttadauro, un capomandamento noto già per le vicende risalenti al maxi-processo, ha favorito la mafia. Infine la Cassazione, non accogliendo la richiesta del pg che chiedeva di togliere l’aggravante, ha confermato la sentenza. E, in certo senso, che in Italia – purtroppo – come diceva Falcone: “o hai gli elementi veramente concreti oppure è inutile azzardare ipotesi indagatorie”. Per non far diventare il politico “la solita vittima della giustizia in questo paese”.