L'Afem di Campofelice di Roccella |Cicatrici di morte sul paesaggio - Live Sicilia

L’Afem di Campofelice di Roccella |Cicatrici di morte sul paesaggio

Lo stabilimento in cui nel 1982 morirono tre operai è abbandonato da trent'anni. LE FOTO

Le "case dei fantasmi"
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Le “case dei fantasmi” sono stabilimenti industriali ai bordi delle strade e alle periferie delle città siciliane. Sorgono in mezzo al nulla o accanto a palazzi nuovissimi, circondate dal verde o ai margini di centri commerciali. Sono inserite nel paesaggio da talmente tanto tempo che ci siamo abituati alla loro presenza. Spesso sono abbandonate e ci chiediamo cosa siano state e quale sarà il loro destino, mentre a volte vivono ancora, ma nascondono storie del passato che aspettano di essere raccontate. Le precedenti due puntate ci hanno portato nella città di Palermo. Ora ci spostiamo in provincia.

Scappate, scappate, scappate. L’urlo è rivolto agli operai del piano inferiore, che corrono a mettersi in salvo sotto una tettoia. La colata di ferro fuso è appena iniziata e segue una procedura collaudata migliaia di volte, un grande recipiente viene riempito e scaldato fino a temperature superiori ai millecinquecento gradi e il metallo fonde diventando simile a lava vulcanica, ma molto più caldo. Non si capisce bene cosa vada storto quella notte, ma il metallo esce fuori dal recipiente e travolge l’operaio che lo sta manovrando con una gru. I suoi colleghi iniziano a urlare svegliando persino il capo acciaieria, che vive in un edificio di fronte all’entrata dello stabilimento, mentre il ferro si sparge sul pavimento e lo sfonda, finendo al piano di sotto. I due operai dopo aver sentito le urla sono al riparo, ma il ferro fuso entra in contatto con i recipienti d’acqua della zona di raffreddamento. L’esplosione distrugge l’intero reparto, causando il panico e una grande confusione nei soccorsi. Lo stabilimento siderurgico non dispone neanche di un’infermeria. I tre operai muoiono. La storia di una comunità viene segnata.

Lo stabilimento dell’Acciaierie Ferriere del Mediterraneo, o Afem come lo conoscono tutti da queste parti, è la presenza più vistosa di Campofelice di Roccella. Arrivando a Palermo da Messina, poco dopo Cefalù, la lunga schiera di villette e zone residenziali che ricoprono la fascia costiera viene interrotta da uno scheletro di cemento e ferro grande quanto uno stadio e guarnito di torre arrugginita. Bastano due curve per lasciarselo alle spalle, ma è impossibile non notarlo. Da più di trent’anni è un problema per Campofelice di Roccella, e non solo perché al suo interno sono morti tre operai, di cui in paese ancora si ricordano e a cui hanno dedicato una piazza. Ma perché dopo avere dato lavoro per vent’anni a 120 famiglie e aver chiuso intorno al 1986 il mostro è ancora lì. Guarda il mare, in attesa che qualcuno si decida a liberarsene.

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L’Afem arriva a Campofelice di Roccella nei primi anni ’60, grazie all’intuizione del sindaco Giuseppe Corvello. Guardando le campagne che si spopolavano, con i contadini che le lasciavano per andare a riempire le fabbriche del nord, Corvello cercò di attirare l’industria nel suo paese per frenare almeno un po’ l’emigrazione. La situazione era favorevole, con la cassa del mezzogiorno che riempiva di soldi chiunque arrivasse con un piano industriale in tasca. E grazie all’intervento di Salvo Lima e del senatore di Campofelice di Roccella Vincenzo Carollo il piano industriale arrivò con il marchio di un’azienda siderurgica di Brescia, che promise di aprire a Campofelice la sua seconda acciaieria siciliana, dopo quella di Catania. Il comune si impegnò a cedere i terreni, su cui venivano coltivati carciofi, al prezzo simbolico di cinquanta lire al metro quadro. Campofelice si trasformò in una città industriale.

Venti anni dopo, l’Afem inizia a segnare il territorio di cicatrici. Prima con i tre morti della notte del 4 aprile 1982. Poi con la crisi del mercato siderurgico, che spinse, insieme a regolamenti europei che assegnavano quote per la produzione di acciaio, a chiudere la fabbrica tra le proteste degli abitanti di Campofelice, che si vedevano portare via un polmone produttivo. A metà degli anni ottanta lo stabilimento viene abbandonato con la promessa, da parte della proprietà, di una bonifica veloce, per permettere al paese di riutilizzare l’area. Quei terreni fanno gola. Sono in una zona in cui si iniziano a intravedere le potenzialità del turismo, affacciata sul mare e a cui l’edilizia residenziale si sta avvicinando a passo di marcia.

La bonifica però non parte mai, bloccata da una battaglia legale interminabile tra il comune di Campofelice e la proprietà dell’acciaieria. Ogni tanto viene annunciato l’inizio della pulizia dei terreni e viene rimosso un pezzo di tetto dallo stabilimento, ma lo scheletro rimane lì. A ogni elezione comunale i candidati fanno promesse sulla bonifica dell’Afem, un’area ancora centrale nei pensieri dei campofelicesi, che sperano di poterne fare una zona balneare o un’area verde e hanno messo per iscritto queste speranze nel piano regolatore generale. Per il momento gli spazi comunali nei pressi dello stabilimento sono usati come deposito per i rifiuti ingombranti.

Poco prima che la fabbrica chiudesse, a metà degli anni ottanta, i campofelicesi si radunarono in una mattina di primavera per andare a requisire simbolicamente lo stabilimento, che sorgeva su terreni praticamente regalati. In paese si racconta che mentre il corteo stava per raggiungere l’Afem i manifestanti iniziarono a sentire uno strano ronzio. In molti si guardarono intorno perplessi, fino a che qualcuno non capì e invitò gli altri a gettarsi per terra. Sopra le teste del corteo passò una nuvola di api, che proprio in quel periodo stavano sciamando. Pare che nessuno fu punto: le api, lasciando Campofelice, lo fecero in modo caotico, ma senza lasciare traccia. Più di trent’anni dopo aver lasciato il paese, invece, l’Afem è ancora lì, e continua a pungere in silenzio il paesaggio.


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