PALERMO – Un’ecatombe. Non ci sono solo i 319 morti finora ripescati a largo di Lampedusa, ma le migliaia di persone sepolte, per sempre, in fondo al mare. Per il giudice per le indagini preliminari di Agrigento, Alberto Davico, siamo di fronte ad una nuova Shoah. Allora gli ebrei venivano stipati come bestie nei vagoni dei treni. Oggi avviene sulle carrette del mare.
“Non si deve fare ricorso a suggestioni per ricordare le analoghe modalità di trasporto degli ebrei verso i campi di concentramento – scrive il Gip -. Sfugge d’altronde l’esatta considerazione dello stesso numero delle sventurate vittime, comunque nell’ordine di migliaia, in occasione di naufragi intervenuti con frequenza nell’affrontare il mare con barche inidonee, e comunque cariche ogni oltre possibile misura su disposizione delle organizzazioni criminali”. Perché dietro l’ecatombe di Lampedusa c’è una regia internazionale che non può essere contrastata con le sole forze di polizia locali. Non è un caso, infatti, che le indagini siano ora affidate al coordinamento della Direzione distrettuale antimafia e che a Palermo come ad Agrigento si susseguano gli incontri con l’intelligence del Servizio centrale operativo di Roma.
Khaled Bensalem, nato a Tunisi 35 anni fa, sarebbe lo scafista del barcone della morte. Adesso grazie alle dichiarazioni di chi è scampato alla tragedia i pubblici ministeri palermitani puntano ad individuare chi il viaggio lo ha organizzato. Bensalem a Lampedusa c’era già arrivato ad aprile scorso su un barcone con 250 disperati. Era stato individuato ed espulso. Tornato in Africa avrebbe ripreso subito i suoi traffici.
Così racconta un eritreo di 37 anni: “Il 2 ottobre insieme a tre miei cugini siamo partiti dalla costa della città di Misuraca in Libia, a bordo di un peschereccio sul quale erano stipati circa 500 migranti. Per l’organizzazione del viaggi ho contattato un soggetto di nome Abraham di nazionalità sudanese. Ho pagato 3400 dollari. Sono partito dal Sudan e sono arrivato a Tripoli dove ho atteso per due settimane”.
Un altro aggiunge: “Ho raccolto il denaro per il viaggio in Italia per me mia cugina e mia zia. Ho contattato un intermediario di nome Ermiyas. Ho consegnato 4800 dollari. Siamo stati condotti in un centro di raccolta a disposizione dell’organizzazione libica. Siamo stati raccolti in circa 500, siamo stati due settimane. Poi ci hanno fatto salire un su un camion militare, con un cassone chiuso, a gruppi di 100, ci hanno portato su una spiaggia. Ci hanno fatto incolonnare a grossi gruppi, con delle piccole imbarcazioni siamo arrivati nel grosso peschereccio che ci ha condotti in Italia”.
A bordo di quel pescherecchio si è scatenato l’inferno: “Ho sentito il capitano gridare ‘Welie al lamba” (accendete le torce ndr). L’imbarcazione ha preso fuoco. Mi hanno detto che il capitano aveva dato fuoco per illuminare e farsi vedere da altre imbarcazioni per avere aiuto. Eravamo tutti ammassati. Vi era un bagno nell’imbarcazione, ma era impossibile da raggiungere non c’era possibilità di muoversi. Il viaggio è durato più di 24 ore. Chi doveva fare i bisogni, o se li faceva addosso o utilizzava una bottiglia”.
Nelle parole con cui il giudice Davico conclude il provvedimento di convalida del fermo del presunto scafista c’è l’amare constatazione di un’azione di contrasto che finora non ha prodotto risultati. Tanto che si parla di “senso di impunità certo coltivato da organizzatori e scafisti a fronte di una possibile reazione da parte dello Stato per perseguire dalle radici il fenomeno. Nessun organizzatore operante in Libia è stato assicurato alla giustizia italiana”. Ora si sono mossi la Direzione distrettuale antimafia e il Servizio centrale operativo. La caccia delle menti della banda che opera in Libia è aperta.