(rp) Non c’è mai un solo colpevole a pagare. Uno soffre dietro le sbarre. La famiglia sta male. Fuori. I parenti di un detenuto assiepati per il colloquio di rito somigliano a un manuale di tristezza e diritti calpestati. Qualcuno li liquida, a Palermo, con un sostantivo-aggettivo sprezzante: “Malacarne”. Non hanno mai amato lo Stato. Non frequentano i pascoli della legalità. Delinquono nella modalità permessa dalla capacità criminale. Malacarne in una cella dell’Ucciardone o del Pagliarelli e vedrete che caldo farà ad agosto. Malacarne sotto il sole che picchia sul portone di ferro. E i bambini che giocano, cercando l’ombra? Malacarne.
Non chiedono comprensione. Non gliela concediamo. Sono nati allo Zen, allo Sperone. In una città di persone illuminate, le responsabilità individuali non diventerebbero mai una condanna, il marchio di una stirpe. Noi suggelliamo la differenza. Malacarne. E’ per loro, se Palermo affonda nel suo fango. Palermo irredimibile, appesantita dalle cicatrici dell’ignoranza e della violenza dei suoi figli peggiori. Ma chi si è mai chinato sulle piaghe di certe facce e di certi quartieri per tentare una medicazione comune, per guarire tutti da un’antica inconsapevolezza della dignità e dalla superbia?
Così, le famiglie dei malacarne continuano a subire una durezza collettiva che rende il nostro mondo cieco. Vasta è la capacità di imporre gli sfregi commessi da chi ha il potere di commetterli, nei penitenziari, nelle caserme, nei tribunali, nei commissariati. La pelle ruvida di Palermo non guarisce mai. Non hanno pace le anime separate dal portone di ferro. Noi qui vi chiediamo di fare sentire la vostra voce per Francesco Cardella. Vi chiediamo di schierarvi per una battaglia giusta: il ritorno a casa di un padre che ha perso la sua famiglia. Avete capacità polemica e forza, lettori. Usatela bene. O preferite limitarvi soltanto alle diatribe su Zamparini?