CATANIA. Dicono che in estate le notizie scarseggino. Che i giornalisti per far fronte all’improvvisa calura che porta con sé le vacche magre dell’informazione, vadano a caccia di qualsiasi notizia pur di riempire le colonne dei giornali e dei siti. Dicono anche che persino la politica si trasformi in puro gossip sotto l’ombrellone. Sarà. Sarà pure così. Fatto sta che a Catania le giornate e gli avvenimenti che hanno scandito e poi succeduto il piovoso ferragosto di quest’anno sono state di quelle che meriterebbero un dibattito sul quale soffermarsi tutto l’anno. E forse rappresentano sul serio lo specchio impietoso di una città che prova a redimersi dalle tante, troppe, contraddizioni che vive sulla propria pelle ogni giorno. L’ultima settimana è stata di quelle che lasceranno impresso il segno. E chissà per quanto tempo: nel bene e nel male.
Si è cominciato con il reportage a tutta pagina del quotidiano francese Le Parisien: una sorta di bignami per stranieri sul perché Catania sia una città da dover evitare come la peste. Va bene che si tratta dell’aver ripreso i “suggerimenti” che la Questura etnea dispensa ai turisti in arrivo dall’estero ma in questo caso ci si è andati a nozze, quasi che non si vedesse l’ora di riuscire nell’affondo. Lo schiaffo morale la città se l’è preso tutto: impossibile reagire. Catania non è certo la Lugano del sud in termini di sicurezza e non si può ignorare che urge – ed in fretta – ristabilire un ordine che è stato spazzato via (e da tempo) dal caos e dalla paura; con il centro storico che da superlativo inno alla vita per intere generazioni di catanesi, da anni arranca soprattutto proprio sul fronte dell’ordine pubblico. Nel frattempo che ci si indigna per “l’ennesimo articolo contro”, per una figuraccia che non fa bene all’autostima della città e intanto che si fa a scaricabarile, Catania arretra di un passo ancora: quasi legittimando quell’orribile appellativo di posto insicuro.
Ma quella che si avvia a conclusione è stata anche la settimana dell’approdo al Porto delle salme dei 49 migranti morti al largo delle coste libiche nel disgraziato viaggio verso la Sicilia. Catania le ha accolte (assieme ai sopravvissuti nei cui occhi si leggeva nitidamente una disperazione contagiosa) con rispetto e onestà. Uno strazio assistere alle operazioni di recupero di quell’anonimo container con all’interno i cadaveri di chi è stato fatto crepare asfissiato nelle stive di barconi sudici e odoranti di morte. “Chi provava a risalire per respirare verso il ponte, veniva preso a calci, pugni, bastonate e cinghiate”, ha poi spiegato il Procuratore Patanè nel corso della conferenza stampa in Procura nella quale è stato annunciato il fermo di otto scafisti. Per alcuni, avere sospeso i fuochi di Sant’Agata in segno di lutto è stato un gesto ruffiano, inutile e pieno di ipocrisia. Ci può stare tutto: ma la dietrologia ad ogni costo sfilaccia ancora di più l’identità di una città che non riesce a ritrovarsi nemmeno quando dinanzi al dramma della morte occorrerebbe, probabilmente (ma possiamo sbagliarci), solo restare in silenzio.
Infine, a corollario della settimana, c’è stata la sentenza di retrocessione e penalizzazione (ben 12 punti) del Calcio Catania in Lega Pro. Allo sfregio dell’immagine della città ci aveva già pensato l’imbarazzante (per tutti i catanesi) inchiesta “I treni del gol” con in testa il patron – che resta tale – Nino Pulvirenti: il resto, lo ha fatto una sentenza che forse era già bella e scritta da un pezzo. Ma non è questo il punto. La vera questione è che anche in questo caso si assiste ad una tragicommedia che umilia ancora di più la città sportiva. Un gioco delle parti nelle quali la proprietà dice di volere vendere ma a cifre che metterebbero paura anche ad un Emiro; dall’altra, ecco lo sbandierare a più non posso la presenza di una cordata che nessuno ha, però, ancora conosciuto. “Pagare moneta, vedere cammello”, a parti invertite.
In definitiva, una settimana che immortala l’istantanea di una città di Catania in un momento complicatissimo: intrappolata tra il decadentismo e la voglia di riscatto. Ma per risollevarsi occorrerebbe uno scatto d’orgoglio: uno di quelli che faccia capire che il tempo dei think tank è abbondantemente scaduto. Vale per tutti: politica cittadina, rappresentanti delle istituzioni e burocrazia in primis. Altro che estate. Altro che Le Parisien.