"Lotta alla mafia sacrosanta | ma no a fanatismi assolutisti" - Live Sicilia

“Lotta alla mafia sacrosanta | ma no a fanatismi assolutisti”

Parla Giovanni Fiandaca. "L'ergastolo ostativo? Interpretazioni lontane dalla Costituzione"

L'intervista
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7 min di lettura

“Non è bello che si assista ancor oggi a una contrapposizione tra la gran parte della magistratura antimafia e la cultura giuridica dei giuristi accademici”. Così il giurista Giovanni Fiandaca, docente di Diritto penale, a proposito del dibattito sull’ergastolo ostativo. E del rischio di assolutizzare con fanatismo la sacrosanta lotta alla mafia mettendo da canto la Costituzione.

Professore, questo ergastolo ostativo, ossia senza speranza di fine, è da superare, come ci indica l’Europa, o per reati come la mafia è da conservare, come si sostiene in Italia?

“Come purtroppo solitamente avviene, sia il sistema mediatico sia l’andamento del dibattito pubblico sono sempre molto superficiali e molto emotivi quando affrontano temi divisivi e caldi come per esempio l’ergastolo ostativo o la lotta alla mafia. E in generale quando si parla della risposta punitiva a gravi forme di criminalità, pensiamo per esempio al recente caso Brusca e al diniego della sua istanza. E i media tendono a mettere in gioco la reazione delle vittime, ma con tutto il rispetto per i sentimenti delle vittime, questi sentimenti non possono costituire il prevalente criterio punitivo della reazione dello Stato, sennò ricadremmo a vecchie pericolosissime forme di giustizia privata. Anche perché non si sa bene cosa c’è nel cuore della vittima”.

In che senso?

“Nel senso che è complicato anche per gli psicologi. È studiato che una risposta altamente retributiva, tipo ‘in carcere tutta la vita’, non è una risposta che sana ferite profonde per le vittime. Tanto che una parte di noi studiosi proponiamo un concetto di rieducazione della vittima, con interventi di sostegno psicologico e assistenziale. Il problema è se questo debba essere un compito della giustizia penale o di altri organismi”.

La risposta dei magistrati antimafia è stata contraria all’idea di superare l’ergastolo ostativo. Che ne pensa?

“Che non è bello che si assista ancor oggi a una contrapposizione tra la gran parte della magistratura antimafia e la cultura giuridica dei giuristi accademici, non solo penalisti ma anche costituzionalisti. Questi ultimi hanno risvegliato la loro attenzione sul tema della pena. Nel ricorso fatto a Strasburgo sono intervenuti alcuni professori di diritto penale e costituzionale. Non è una cosa bella che si assista a questa contrapposizione netta tra la cultura giudiziaria dei magistrati antimafia e la cultura giuridica di matrice professorale. Non è bello perché attiene alla maniera di concepire temi di fondo della cultura del diritto”.

E lei ritiene che sui temi di fondo, sui principi, non ci sia una condivisione?

“In un Paese evoluto, sui principi essenziali in teoria ci dovrebbe essere molta più convergenza rispetto a quanto si verifica in questo Paese. Questo non fa bene anche dal punto di vista della percezione dei cittadini, che non possono essere che disorientati. La giustizia penale non può diventare un campo di battaglia tra amici e nemici, come se i migliori professori fossero amici della mafia. E non è bene che i mass media questo contrasto invece di attutirlo finiscano per soffiarci sopra”.

Ma lei come vede la questione dell’ergastolo ostativo?

“Certo c’è qualche problema a eliminare l’ergastolo ostativo, ma non è che i mafiosi automaticamente acquistano la libertà, perché ci dovrebbe essere una valutazione del tribunale di sorveglianza. Si obietta che ci possono essere pressioni sui magistrati, ma queste ci possono essere in tutte le fasi, anche su altre decisioni complesse, a partire dalla condanna o dalla sua entità. Vero è che è problematico accettare il ravvedimento di un mafioso ma i magistrati sono chiamati a emettere decisioni complicate in molti casi”.

C’è stato un cambiamento della mafia che giustifica un approccio diverso, secondo lei?

“Cosa nostra siciliana dal punto di vista della pericolosità e potenza non è più quella di prima. Trent’anni fa l’ergastolo ostativo aveva un valore, oggi non è la stessa cosa. Poi, il caso Brusca ci fa parlare di un tema: cosa significa rieducazione? E cosa significa rieducazione di un mafioso? Il principio di rieducazione è inserito in Costituzione e valorizzato nella giurisprudenza europea. Leggendo i giornali sul concetto di rieducazione non sono d’accordo nemmeno i magistrati antimafia tra di loro. Secondo l’interpretazione prevalente, che emerge in tutti i commentari e i manuali, il concetto di rieducazione in senso costituzionale è l’acquisizione della capacità di vivere rispettando le leggi e le fondamentali regole sociali una volta tornati nella realtà esterna. Quindi il concetto non coincide con un ravvedimento meramente interiore, la rieducazione deve riguardare il condannato che esce dal carcere”.

Cioè, la norma costituzionale si disinteressa di quello che alberga nell’anima del detenuto, ha interesse solo a quello che farà nella società.

“Può sembrare un paradosso ma a una Costituzione caratterizzata da principi laici e pluralistici non interessa molto se questa riacquisizione obbedisce a un calcolo egoistico anche se io nel chiuso della mia coscienza continuo a pensare che delinquere è bello. Certo, tanto più il soggetto si ravvede, tanto più la rieducazione è credibile. E poi tutto questo è di difficile prova. Ciò posto, io rilevo che una parte della magistratura di sorveglianza ritiene che rispetto al modo di intendere la rieducazione di un capo mafioso che si è macchiato di delitti gravissimi e numerosi come Brusca ci voglia qualche cosa di più per ammettere che il condannato si sia rieducato. Qualcosa che torna a colorare la rieducazione di una dimensione morale o moraleggiante che per la Costituzione non è necessario. Da quanto leggo riportato da Giovanni Bianconi sul Corriere della sera, il Tribunale di sorveglianza di Roma avrebbe affermato che per uno come Brusca ‘il ravvedimento deve essere qualcosa che va oltre l’aspetto esteriore della condotta’. Insomma, ci vuole ‘un mutamento profondo e sensibile della personalità del soggetto’, una sorta di ‘pentimento civile’. Tra l’altro si scrive che non si sa se Brusca abbia chiesto perdono ai discendenti delle vittime. Secondo questa concezione la rieducazione comporterebbe un’esigenza di riconciliazione anche con le vittime. Questo modo di concepire la rieducazione, più eticamente connotato rispetto alla Costituzione, è una interpretazione dei magistrati rispetto alla quale non ci sono appigli della Costituzione e della legge”.

Piero Grasso invece ha detto un’altra cosa, che Brusca non è come Riina.

“Sì, dice un’altra cosa lui, prendo il virgolettato riportato dal Corriere della Sera. ‘Quando ho avuto a che fare con Brusca avevo l’obiettivo di cercare la verità, non mi sono preoccupato di ottenere le scuse o richieste di perdono, la legge per ravvedimento intende altro’. Grasso ricorda a questo punto la collaborazione di Brusca come indice di rieducazione. Mi permetta di affermare che qua ognuno difende il suo cantuccio. Per il magistrato amtimafia la cosa più importante è la collaborazione riscontrata. Il ruolo specifico esercitato influenza nel valutare il ravvedimento. Allora si dovrebbero mettere d’accordo meglio i magistrati su cosa significa rieducazione”.

C’è un problema di conflitto tra ergastolo ostativo e rieducazione? E la collaborazione del mafioso è un elemento indispensabile per parlare di rieducazione?

“Come la collaborazione non è di per sé criterio univoco di prova di un avvenuto ravvedimento, a contrario la mancata collaborazione non è univoco criterio di prova di un ravvedimento inesistente. Facciamo il caso di Buscetta, grande prototipo di mafioso collaborante. Tutti simo convinti che dal punto di vista della sua interiorità un mafioso come Buscetta non si è ravveduto nel senso di respingere l’ideologia mafiosa. Lui riteneva di appartenere alla ‘mafia buona’ e ha combattuto la ‘mafia cattiva’ di Riina e i Corleonesi perché avevano pervertito la mafia. Molti intendiamo la sua collaborazione come vendetta ai Corleonesi. Di fronte questo possiamo dire che Buscetta si era ravveduto? No. La collaborazione può essere decisa per motivi di calcolo e può essere utilizzata nella lotta tra clan. Ma lo stesso vale al contrario. Il mafioso può non collaborare perché può non avere nulla di nuovo da dire. O per il timore di esporre se stesso o i familiari ad azioni ritorsive. O perché il mafioso può essere portatore di una indisponibilità morale a scambiare la propria libertà con la libertà di un altro soggetto. La libertà morale dovrebbe essere tutelata, persino nei confronti del mafioso. C’è poi da ipotizzare una violazione del diritto di difesa”.

Che effetto avrà la pronuncia della Corte Europea?

“La pronuncia di Strasburgo non cambia la normativa italiana. Il 22 ottobre la Corte Costituzionale si pronuncerà sul tema a proposito del caso di Sebastiano Cannizzaro. Negli ultimi tempi la Corte ha fatto passi avanti. Nel 2018 la Corte ha ricordato che la Costituzione afferma ‘il principio della non sacrificabilità della funzione rieducativo sull’altare di ogni altra pur legittima funzione della pena’. Sarebbe auspicabile che anche taluni magistrati antimafia lo capissero, poiché la lotta alla mafia è cosa sacrosanta e prioritaria, ma non può esser assolutizzata in maniera fanatica tanto da ritenere pura teoria o sentimenti da anime belle l’esigenza di rispettare il costitiuzionalismo in maniera più coerente e rigorosa di prima. Ciò che poteva essere considerato costituzionalmente compatibile cent’anni fa o vent’anni fa, può essere giudicato costituzionalmente incompatibile oggi”.


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