Ma io difendo la "barbona" - Live Sicilia

Ma io difendo la “barbona”

“Palermo, si cerca la barbona che ha profanato l’Albero Falcone”. E’ il titolo che campeggia su un quotidiano online. Sempre meglio del telegrafico flash d’agenzia: “Caccia a barbona responsabile furto”. A proposito di profanazioni, chi scrive ne segnala un paio di sfuggita. Sarebbe possibile scrivere “clochard” o “senzacasa” e non “barbona, tanto per cominciare e per usare un briciolo di misericordia? Dice, ma quello è, ci vuole anche una chiara durezza lessicale in omaggio alla verità. Verità per verità, la definizione dovremmo lasciarla scegliere a chi ne porta il peso non solo sintattico sulle spalle, oltre i nostri graziosi dibattiti sul senso. E chi scrive, per una discreta esperienza di notti con i disgraziati, può assicurarlo con sufficiente esattezza: a nessun barbone piace essere chiamato “barbone”, come nessun diversamente abile può sorridere davanti allo choc della paroletta “handicappato”. Nelle parole ci sono campi di concentramento. E’ una questione di sensibilità. Seconda profanazione (della realtà): dove sta la profanazione? L’atto così classificato è possibile quando è sorretto da una volontà che intende raggiungere il vilipendio, il disprezzo, l’offesa. La profanazione non è mai una questione meramente oggettiva, ha bisogno di una carica soggettiva che la circoscriva e la materializzi. Dunque, possiamo escludere il gesto inconsapevole di una donna malata (ammesso che sia stata lei, ma qui puntualizziamo il sentimento e il costume del verosimile, delle ricostruzioni che leggiamo, tenendo presente che la realtà potrebbe rifugiarsi altrove) dal novero delle profanazioni? Probabilmente sì.
E ancora: esiste forse una profanazione maggiore di una vita sputacchiata, dispersa e abbandonata? Chi si fa carico socialmente di un tale orrore? Chi chiederà scusa della miseria, dei patimenti e della pazzia indotta dal bisogno? Chi scrive, a titolo personale, sta perciò con la “barbona” e la difende, se non altro perché è la parte più debole e meritevole di “giustizia” in questo annodarsi di cappi troppo precipitoso per non essere ipocrita. Certo, l’offesa c’è stata, ed è stata sanata dal ritorno della gente, dalla marea che ha sommerso un simbolo altrimenti dimenticato. Ora non resta che il perdono.
Perché una donna, per quanto sventurata e anonima, vale sempre più di un albero. Anche se è un albero con un nome e una storia indimenticabili.


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