"Mio zio non se lo merita"| La caduta dei Provenzano - Live Sicilia

“Mio zio non se lo merita”| La caduta dei Provenzano

Carmelo Gariffo e Antonino Di Marco

Il nipote del vecchio padrino, Carmelo Gariffo, non è riuscito a prendere il potere a Corleone.

MAFIA - IL BLITZ
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4 min di lettura

PALERMO – Le microspie hanno svelato il tramonto dei Provenzano. Il nipote del vecchio padrino, Carmelo Gariffoha provato a insidiare il neo capomandamento di Corleone, Rosario Lo Bue. Non c’è riuscito e non ci riuscirà visto che è uno dei dodici arrestati del blitz dei carabinieri. Gariffo, 58 anni, di cui tredici trascorsi in carcere. Era il postino dello zio Bernardo Provenzano. Il numero “123” dei pizzini del padrino corleonese che gli agenti della Squadra mobile stanarono anche seguendo il nipote. Negli ultimi tempi voleva dare una parvenza di normalità alla sua vita facendosi assumere come piastrellista nell’impresa che stava costruendo il cmpo polivalente di Corleone. 

Le sue conversazioni intercettate offrono lo spaccato di una dinastia mafiosa in caduta libera. Lui stesso si definiva “azzerato”, economicamente e mafiosamente. Nel 2013, dopo avere finito di scontare una lunga condanna, ha provato a mettere le cose a posto perché, diceva, “si è perso un poco l’orientamento anche perché c’è lui… dai miei cugini sento solo lamentele che non si vogliono interessare a nessuna cosa… e mi sembra che sono salite… iniziando dal figlio di Giovanni (Giuseppe Grizzaffi), dal genero di Giovanni (Alessandro Correnti), di mastro Tano (Gaetano Riina) e compagnia bella senza andare avanti, mi sembra che ognuno per come la pensa la fa… ma questo discorso non mi porta lontano”.

Gariffo, forte della parentela con Bernardo Provenzano, di cui era stato fedele servitore oltre che nipote, contestava la leadership di Rosario Lo Bue, piazzato al vertice del mandamento durante la ristrutturazione di Cosa nostra, poi azzerata dai carabinieri con il blitz Perseo del 2008. Anche Rosario Lo Bue è finito in carcere nei mesi scorsi. Al suo posto sarebbe subentrato il figlio Leoluca, nei confronti del quale Gariffo non era tenero: “… che pensa che ha il mondo per le mani questo nicareddu”.

A creare malumori era stata soprattutto la gestione della cassa del mandamento da parte di Lo Bue. E Gariffo confidava ad Antonino Di Marco, custode del campo sportivo, pure lui in cella, che era davvero pronto ad una reazione violenta: “… con tutto quello che ho sentito mi dovrei mettere due pezzi di ferro in tasca e dove arriverei ci metterei una canna”. Ma si sarebbe comportato in maniera diversa, sul solco di quella moderazione imposta dallo zio Bernardo, “perché la sua scuola era un’altra e il primo mio zio mi avrebbe rotto le gambe lui stesso”.

Durante l’assenza forzata di Gariffo da Corleone Di Marco gli confidava di avere tentato di convincere Angelo Provenzano, uno dei figli del padrino, a scendere in campo. Gli aveva detto “Angelo non buttare questo giocattolo… ora deve tornare Carmelo… gliel’ho detto a lui… qualsiasi bisogno che hai, hai solo tu da rintracciarmi… non buttare questo giocattolo che hai nelle mani… perché tu come lo butti questo giocattolo qualcuno se lo prende… stiamo attenti…”.

Angelo Provenzano, così raccontava Di Marco, avrebbe deciso di restare fuori dai giochi: “… no dice io di testa mia non ne posso parlare, a destra e sinistra…”. Come dire che per muovere ogni passo serviva il permesso dall’alto. “… minchia tuo cugino Angelo – proseguiva Di Marco – mi ha risposto voi avete deciso di lasciarmi solo… gli ho detto Angelo che cazzo stai dicendo”. Né questa, né le indagini precedenti, e sono state parecchie, hanno fatto emergere il coinvolgimento dei figli di Provenzano nelle dinamiche mafiose.

E allora bisognava provare a farsi rispettare, sosteneva Gariffo, senza mandare avanti uno dal cognome Provenzano: “… senti il giocattolo che ha nelle mani, che i miei cugini vuoi per la vita che hanno passato, vuoi per la sofferenza.. noi altri il pane lo avessimo potuto mangiare un pezzettino tutti… senza andare facendo tanto rumore, è andato a finire che noi non ci siamo potuti mangiare né quello che avessimo potuto mangiare e nemmeno quello che ci toccava mangiare… mentre c’è stato mio zio era giusto che i suoi figli si stavano a loro posto, e devono stare a posto loro, perché basta uno no cento”.

Ora che lo zio Bernardo non c’era più – all’epoca delle intercettazioni il capomafia non era deceduto, ma era ancora al carcere duro – e visto che era stato impossibile convincere i figli, Gariffo si sentiva addosso la responsabilità di fare valere i diritti di famiglia. Ci voleva tempo, però: “Uno perché non mi posso muovere, secondo perché prima mi devo trovare una persona adatta… però ciò non vuol dire che le cose non le dobbiamo fare… non facciamo cose affrettate perché non può essere…”.

La fretta era cattiva consigliere, ma con calma avrebbero potuto e dovuto riprendersi il potere: “Non ti dico che deve riuscire per forza, ma ci dobbiamo provare. Ci dobbiamo provare per tante ragioni. Una perché sono azzerato completamente. E poi penso perché ci sia bisogno, non sono il solo ad avere bisogno ma ce ne sono assai, il primo iniziando da mio zio, e mio zio certe cose non se le merita”.

 

 


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