PALERMO – In un cantiere, lontano da occhi indiscreti, all’oscuro del proprietario della casa o del magazzino in fase di ristrutturazione. I nuovi boss si danno appuntamento. La convocazione è riservata a tre, quattro persone al massimo, compreso il nuovo uomo d’onore. Perché la tradizione va rinnovata e rispettata. Sempre e comunque. Anzi, negli ultimi tempi si assiste al ritorno agli antichi rituali con tanto di punciuta, santino che brucia e formula da recitare. Le cerimonie di affiliazione elevano al rango di mafiosi picciotti che finora erano rimasti confinati nel sottobosco della criminalità comune. Giovani rapinatori, svegli, veloci con la pistola e senza paura assurgono al rango di uomini d’onore. Questo significa che ci sono personaggi liberi con un pedigree di tutto rispetto che possono accollarsi l’onere di un’affiliazione, ma anche che ci sono nuove leve che scalpitano.
Magistrati e forze dell’ordine quale mafia devono fronteggiare oggi? Indebolita, senza dubbio, ma fedele alla linea di sempre. Una linea fatta di pizzo, soprusi e affari. Con un fattore in più che preoccupa e non poco. Nei mandamenti mafiosi di Palermo e provincia sono tornati in circolazione decine di boss. Tutta gente che ha scontato la propria condanna in silenzio. Alcuni hanno cognomi pesanti, altri di pesante hanno la carriera criminale. C’è chi fa solo finta di starsene in disparte. Sa, capisce di avere gli occhi puntati addosso e lavora sottotraccia. Altri sono meno discreti. Difficile in questa fase avere un quadro chiaro delle dinamiche. Le recenti cronache ci dicono che ci sono boss che restano irredimibili. Cosimo Vernengo, Salvatore Profeta, Natale Gambino si erano liberati di un’ingiusta condanna all’ergastolo per una strage che non avevano commesso, quella di via D’Amelio, ma sono tornati in carcere. E allora diventa inevitabile per gli investigatori tenere sulla scrivania, bene in vista, l’elenco degli scarcerati eccellenti.
Uno degli ultimi a riassaporare il gusto della libertà è stato Giulio Caporrimo, il boss di San Lorenzo che nel 2011 convocò i mafiosi di città e provincia nel più grande summit della recente Cosa nostra organizzato nel maneggio Villa Pensabene, alle spalle del Velodfromo dello Zen. Libero è tornato pure Calogero Lo Piccolo, figlio di Salvatore, il barone di San Lorenzo, e fratello di Sandro, oggi entrambi condannati all’ergastolo. Metà della sua vita Calogero l’ha trascorsa in cella. Arrestato per mafia, dopo avere scontato nove anni e dopo un solo anno di libertà tornò in carcere nel 2008. Se n’era stato nelle retrovie, poi fu costretto a fare un passo avanti quando, nel novembre del 2007, la polizia mise fine alla latitanza di padre e fratello in una villetta a Giardinello. Restando a San Lorenzo anche Giovan Battista Giacalone ha saldato il conto con la giustizia. È stato un imprenditore a cui hanno pure confiscato un impero milionario di supermercati e società. Mafia, pizzo ma, anche e soprattutto, affari con le sue imprese divenute pure un ufficio di collocamento a disposizione dei boss di San Lorenzo.
Nella stessa fetta di città, spostandosi a Resuttana, è libera Mariangela Di Trapani. Donna di mafia Mariangela, oggi giunta alla soglia dei cinquantanni di cui poco più di sette trascorsi in carcere. È figlia e sorella di due uomini d’onore, nonché moglie di Salvino Madonia, ergastolano per una serie di omicidi fra cui quello dell’imprenditore antiracket Lbero Grassi. Il fratello Nicolò in un’intercettazione ne tracciava il destino di cui spesso si è artefici: “Mariangela ha sofferto da picciridda… a scuola non c’è più andata per amore di mio padre e di me… perché se ne è voluta venire con noi”. Quella scelta la portò a diventare il tramite operativo fra i parenti rinchiusi al 41 bis e i mafiosi che all’esterno dovevano eseguire gli ordini.
Da Resuttana all’Acquasanta dove ha finito di scontare la pena ed è di nuovo libero un pezzo grosso della vecchia mafia, il settantenne Vincenzo Di Maio, uno che ha sempre potuto dire la sua nella mafia palermitana, come ha di recente ricordato il boss e pentito Vito Galatolo, uno dei tanti figli mafiosi dell’Acquasanta: “C’era Antonio Pipitone, la gestiva lui. Però Vincenzo Di Maio si gestiva anche l’Acquasanta, incontri interni, perché Antonio Pipitone si manteneva sempre più distante per avere contatti con esponenti a livello imprenditoriale, costruttori, perché loro avevano con suo cognato, Masino Cannella, uomo d’onore della famiglia di Prizzi, gestivano la calcestruzzi di cemento, e lui si gestiva di più questo lato economico, e tutto reggeva Vincenzo Di Maio”. Di Maio era una pedina fondamentale nella mappa del potere scoperta con l’operazione Gotha, uno degli ultimi tasselli del puzzle investigativo che avrebbe portato, nel 2006, alla cattura di Bernardo Provenzano. Tolsero l’acqua al padrino corleonese e lo costrinsero a tornare in paese.
E sempre fra Resuttana e l’Acquasanta si muoveva Sergio Giannusa – pure lui di nuovo libero – finito in carcere in una delle operazione “Eos” dei carabinieri, uomo di Salvatore Genova prima e, dopo il suo arresto, dello storico padrino Gaetano Fidanzati, signore dell’Acquasanta. Altro nome della vecchia mafia che ha saldato il conto con lo Stato è Michele Micalizzi, originario di Pallavicino. In carcere c’è rimasto un quarto di secolo. Di nuovo libero, dopo essere stato condannato nel processo Perseo, è pure Giuseppe Lo Verde, che a Tommaso Natale tutti chiamano Pino. Nei giorni del blitz Perseo, nel 2008, il capomafia di Bagheria Pino Scaduto (assolto dall’accusa di estorsione e scarcerato la settimana scorsa) chiedeva ai suoi interlocutori Giovanni Adelfio, Antonino Spera e Sandro Capizzi “a Tommaso Natale chi c’è?”, intendendo chi avesse preso il comando. In risposta ricevette i nomi dell’architetto Giuseppe Liga e quello di Lo Verde.
Hanno espiato la pena anche Salvatore Castiglione e Antonino Cumbo, un tempo uomini fidati di Giovanni Bonanno, il reggente del mandamento di Resuttana inghiottito dalla lupara bianca nel gennaio 2006. La sera prima che venisse ucciso lo invitarono all’ultima cena in un noto locale della città. La sua gestione della cassa del clan aveva creato troppi malumori. Quando lo tolsero di messo ai suoi vecchi picciotti, tra cui Cumbo e Castiglione, fu dato l’ordine di sanare i debiti per voltare pagina. Libero a Resuttana anche Francesco Di Pace, l’uomo a cui, secondo l’accusa, i Lo Piccolo avevano affidato il business dei maxischermi pubblicitari piazzati in giro per la città. Si fidavano di lui anche perché era ed è nipote di Pino Guastella, padrino di primo piano del gotha mafioso ed ergastolano.
Lunghissimo l’elenco dei mafiosi di Porta Nuova tornati in libertà. Si tratta del mandamento che in questi anni ha tenuto in mano le redini della Cosa nostra di una grossa fetta di Palermo. A cominciare da Gregorio Di Giovanni, piazzato nel 2010 al vertice, in qualità di reggente del mandamento. Ai suoi ordini si muoveva un piccolo esercito uomini di fiducia, fra cui Francesco Arcuri con il quale, finita di scontare la sua pena, si era dato appuntamento in un bar di Mondello. “Incontro casuale”, stabilì il giudice che li assolse dall’accusa di avere violato il divieto di incontrare pregiudicati. Entrambi, però, hanno condiviso anche un’altra vicenda giudiziaria e cioè l’inchiesta, poi archiviata, sul delitto dell’avvocato Enzo Fragalà. Arcuri è tornato in cella per l’omicidio nelle scorse settimane. Di Giovanni viene indicato dal pentito Francesco Chiarello come il mandante del delitto, ma da sole le dichiarazioni del collaboratore non bastano a fare scattare la contestazione.
Libero da un po più di tempo è anche Massimo Mulè. Nonostante sia stato condannato sono trascorsi troppi anni senza senza che la sentenza sia divenuta definitiva. Scaduti i termini massimi di custodia cautelare, il presunto boss di Porta Nuova ha lasciato il carcere dove non tornerà visto che, comunque, ha già scontato sei anni di carcerazione preventiva, tanti quanti gliene sono stati inflitti al processo. Lo avevano arrestato nel 2008, anno del blitz Perseo che costò il carcere anche a un altro scarcerato eccellente, Sandro Capizzi di Villagrazia. Anche per lui sono scaduti i termini massimi di custodia cautelare. È figlio del capomafia Benedetto che si era messo in testa di convocare la commissione provinciale di Cosa nostra che non si riuniva più dall’arresto di Totò Riina. Sandro è libero come Salvatore Adelfio, altro cognome che conta e non solo a Villagrazia.
Nel maggio del 2016 è tonato in circolazione Nicola Milano, che ha rischiato trent’anni di carcere. Lui stesso – così emergeva dalle intercettazioni – era preoccupato di beccarne “almeno quindici”. Alla fine ne ha scontato quatto anni e sei mesi. Due mesi in meno della condanna rimediata in appello. Per Milano, boss di Porta Nuova, la scarcerazione è stata decisa dalla Corte d’appello per il venir meno delle esigenze cautelari. Analogo provvedimento per Gabriele Buccheri che aveva avuto la stessa pena. Buccheri era un uomo del pizzo, faceva parte della manovalanza del racket.
A scrollarsi di dosso una pena ben più pesante, l’ergastolo, è stato Giuseppe Dainotti. Dopo un quarto di secolo è stato scarcerato. Anche lui del clan di Porta Nuova, factotum del boss Salvatore Cancemi, in cella c’era finito per il colpo miliardario al Monte dei Pegni di Palermo, ma soprattutto per omicidio. Nel 2000 entrò in vigore la legge Carotti che aveva disposto la sostituzione dell’ergastolo con la pena di trent’anni. Il 23 novembre quella legge, però, fu superata da un decreto legislativo che all’articolo 7 sanciva il ritorno al passato. E cioè all’ergastolo. Nel 2009 la Corte europea diede ragione a un imputato italiano e la Cassazione gli ridusse la pena a trent’anni. E così, in virtù della pioggia di ricorsi davanti ai supremi giudici, la Corte costituzionale intervenne stabilendo, una volta e per tutte, che l’articolo 7 del decreto legislativo del 2000 era incostituzionale.
È tornato a casa, a Pagliarelli, Salvatore Sorrentino, soprannominato lo studentino, dopo avere scontato una lunga condanna. Cinquant’anni compiuti, aveva iniziato facendo il rapinatore per finire a comandare la famiglia mafiosa del Villaggio Santa Rosalia. Era vicino a Nino Rotolo, il padrino che dettava legge dalla sua villa all’Uditore dopo che era riuscito a farsi concedere gli arresti domiciliari, spacciandosi per malato. Si era sparsa la voce del tradimento di Sorrentino nei confronti del boss. Nella guerra fra il capomafia di Pagliarelli e Salvatore Lo Piccolo, lo studentino avrebbe scelto di schierarsi con il boss di San Lorenzo. Voci dal mondo di Cosa nostra. Acqua passata.
Libero in zona anche Settimo Mineo, settantacinque anni e una storia di spessore in Cosa nostra, svelata negli anni dell’inchiesta Gotha. Inchiesta nella quale figuravano anche i nomi dei fratelli Gaetano e Pietro Badagliacca, oggi entrambi liberi, mafiosi della zona di Mezzomonreale con forti legami con i boss trapanesi. Pietro, in particolare, aveva partecipato ad alcuni summit a Paceco ai quali non è mai stata esclusa la partecipazione di Matteo Messina Denaro. E c’era pure il nome di un altro personaggio che ha scontato la sua pena, Vincenzo Cancemi, considerato il braccio operativo di Nino Rotolo nell’edilizia, dove facevano la vice grossa i Sansone.
L’elenco di chi è stato scarcerato prosegue con Tonino Lo Nigro di Brancaccio. Lo avevano arrestato nel 2009 a Bagheria dopo un anno di latitanza. Nelle carte del blitz Perseo gli veniva attribuito il ruolo di reggente dello storico mandamento. I carabinieri lo sorpresero in un elegante appartamento nel popolo centro alle porte di Palermo. Il collaboratore Francesco Franzese ne parlava come uno dei principali interlocutori di Salvatore e Sandro Lo Piccolo, all’epoca della loro latitanza, uomo di fiducia di Andrea Adamo, successivamente arrestato con i due boss a Giardinello. Colpito da provvedimento cautelare nell’ambito dell’operazione Addiopizzo, Lo Nigro era fuiggito in Calabria dove trascorse le “vacanze” nell’estate del 2008. Il suo nascondiglio era a Siderno, in provincia di Reggio Calabria. Il 23 agosto fu individuato dai carabinieri in un lido, ma riuscì a scappare. Lo Nigro è anche nipote di Pietro Tagliavia, boss storico della famiglia di Corso dei Mille. L’elenco degli scarcerati si arricchisce con chi vive in provincia. A Villabate, ad esempio, Antonino Messicati Vitale, giovane ma rispettato boss, entra ed esce dal carcere per cavilli e scadenze di termini di custodia cautelare.