PALERMO – Arriva la stangata per il clan di Bagheria. Il processo Argo si conclude con una raffica di pensanti condanne, nonostante lo sconto previsto dalla scelta del rito abbreviato. La sentenza è del giudice per l’udienza preliminare Wilma Mazzara. Il processo era quello dove venne fuori per la prima volta la scelta di pentirsi di Antonino Zarcone. Lo disse prendendo la parola per fare delle dichiarazioni spontanee: “Signor giudice… sono stato il capo del mandamento di Bagheria fino al 2011, intendo collaborare. Ho già fatto dichiarazioni che accusano me stesso e altri”. E sugli “altri” piovvero addosso le sue dichiarazioni a rendere più forte l’impianto accusatorio già ricostruito dalla Procura della Repubblica.
Ecco gli imputati e le rispettive pene: Roberto Aruta (2 anni), Salvatore Bruno (8 anni e 7 mesi), Giuseppe Carbone (4 anni), Lorenzo Carbone (2 anni e 10 mesi), Raffaele Catanzaro (1 anno e 4 mesi), Francesco Centineo (10 anni e 6 mesi), Giacinto Di Salvo (12 anni), Sergio Flamia (5 anni e 8 mesi), Salvatore Fontana (4 anni e 4 mesi), Vincenzo Gennaro (3 anni), Silvestre Girgenti (10 anni), Vincenzo Graniti (10 anni), Umberto Guagliardo (6 anni), Rosario La Mantia (14 anni e 6 mesi), Salvatore Lauricella (14 anni), Pietro Liga (10 anni e 6 mesi), Francesco Lombardo (14 anni), Driss Mozdahir (12 anni), Rosario Ortello (un anno), Nicola Pecoraro (un anno), Raffaele Purpi (3 anni), Michele Rubino (1 anno e due mesi), Antonino Zarcone (2 anni e 6 mesi), Pietro Tirenna (4 anni e 8 mesi).
Ci sono due assolti: Michele Cirrincione (difeso dall’avocato Filippo Gallina), e Vincenzo Gagliano (difeso dall’avvocato Debora Speciale).
Nel 2013, dall’operazione del Comando provinciale dei carabinieri di Palermo e del Ros, coordinati dal procuratore aggiunto Leonardo Agueci e dai sostituti Francesca Mazzocco e Caterina Malagoli, venne fuori lo spaccato di una mafia arroccata nelle tradizioni (dalla punciuta durante il rito di affiliazione alla presentazione dei nuovi picciotti agli anziani), ma che guardava al futuro investendo fiumi di denaro – la gran parte arrivata dal traffico di stupefacenti – nell’apertura di imprese edili, supermercati, agenzie di scommesse e locali notturni.
In cima alla lista degli imputati c’era Gino Di Salvo, considerato il nuovo reggente del mandamento di Bagheria. Una vecchia conoscenza delle forze dell’ordine visto che avrebbe ottenuto i gradi di capo dopo avere finito di scontare una condanna per mafia. Il suo delfino sarebbe Flamia, anche lui già finito in manette nei giorni del blitz Perseo del 2008. Allora gli veniva contestato il solo favoreggiamento per avere messo a disposizione un suo immobile per ospitare i summit dei boss di Bagheria. Successivamente, sarebbe diventato il cassiere del clan e infine pure lui pentito.