GIARRE (CATANIA) – Mafia, telefonini in carcere, scommesse e fiumi di denaro. È un giro sconcertante quello che per gli investigatori avrebbe al centro l’ormai ex vicesindaco di Itala, Carmelo Palo, ritenuto vicinissimo ad Antonio Di Grazia, figlio 43enne del boss del clan Laudani Orazio.
A Di Grazia, Palo avrebbe fatto favori. Addetto all’Ufficio Matricola della Casa Circondariale di Giarre, avrebbe dato a Di Grazia informazioni riservate prese dalle banche dati della polizia.
Le informazioni riservate
Lo avrebbe informato dell’iter procedimentale dei permessi premio richiesti e sullo stato di detenzione, sul trasferimento e sul fine pena di detenuti che interessavano a Di Grazia. Avrebbe tardato l’inserimento nelle banche dati di un rapporto disciplinare a carico del 43enne per evitare conseguenze sull’imminente rilascio di un permesso.
E, ancora, per l’accusa Palo avrebbe omesso di segnalare il possesso da parte del detenuto di un telefonino in carcere, e comunque lo avrebbe agevolato nel nasconderlo. Avrebbe ricevuto da Di Grazia una sim per comunicare con lui. Lo avrebbe avvertito di imminenti perquisizioni nelle celle.
L’aggravante
Gli avrebbe, ancora, consentito di usare una linea telefonica dell’Ufficio Matricola per telefonate di natura privata. Avrebbe ricevuto da Di Grazia la promessa di giocare schedine su eventi calcistici per conto suo, anticipando le somme da puntare; e la promessa di consegnargli somme di denaro contante da custodire in casa propria con la possibilità di utilizzarle per le proprie necessità.
Promesse che Palo, in veste di pubblico ufficiale, avrebbe accettato. Le accuse formulate dalla Dda di Catania, sono aggravate dalla personalità e dal peso specifico dell’uomo che, secondo l’accusa, stava aiutando in prigione, il figlio del referente del gruppo di Picanello.
Di Grazia, inoltre, avrebbe posto il “potere economico e criminale della propria famiglia come fondamento del patto corruttivo”, da novembre 2021 a luglio 2022.
Il Caffè Etna sequestrato
Dalle indagini della Squadra mobile sarebbe emersa l’ipotesi di intestazione fittizia del bar “Caffè Etna“, che sarebbe stato intestato a soggetti di comodo per eludere misure di prevenzione. Lo dice una nota della Procura sulle indagini, svolte dalla sezione reati contro il patrimonio e la pubblica amministrazione della Squadra mobile e dell’unità Anticorruzione della polizia.
Il Giudice per le indagini preliminari, accogliendo la richiesta della Procura, ha disposto nei confronti dei due indagati l’applicazione della misura cautelare della custodia in carcere e il sequestro preventivo delle quote della Caffè Etna e del suo complesso aziendale.
Il valore, secondo le prime stime, sarebbe di circa 600 mila euro, per il trasferimento fraudolento di valori. La posizione del titolare ‘di fatto’ dell’esercizio commerciale è attualmente al vaglio del Gip.