Archiviamo con dolore il dolore per la morte del Giuseppe D’Avanzo. Chi fa il nostro mestiere non solo sparge veleni sulla porta degli uomini onesti – era il parere di Kieerkgard sui giornalisti – ma impara che la morte è un’esperienza abituale. Lo impari dall’obitorio che accoglie l’ultima vittima degli incidenti, all’ossario che protegge gli scannati di ogni latitudine. Non possiamo dannarci contro la morte e bestemmiare. Non è lecito ribellarsi, proprio quando tocca a noi o a quelli che amiamo e ammiriamo. Sarebbe un’offesa ai cadaveri che hanno attraversato la nostra professione e che ci hanno imposto il distacco, per necessità di sopravvivenza.
Già vediamo il buco nelle pagine di “Repubblica” come una volta lo disegnò Forattini. Esistono tanti altri bravi giornalisti nelle contrade del regno di Ezio Mauro e di Barbapapà Scalfari. Il punto è un altro: Giuseppe D’Avanzo era inimitabile nel cogliere il senso delle cose. Di cronisti capaci di raccontare ce ne sono tonnellate, altrettanti sanno analizzare dal pulpito di un editoriale. Più difficile narrare, consentendo ai fatti di prendere vita da soli e di comporre un quadro comprensibile. Il giornalismo alla D’Avanzo è un prodigioso burattino senza fili che non mente mai. Gli serve appena un bagliore che gli spalanchi gli occhi e gli sgranchisca le gambe. Il resto viene da sé. L’artigianato del giornalista napoletano stroncato da un infarto utilizzava una nobile materia prima e dava una forma alla notizia. Né ricopiatura, né creazione arbitraria. Sintesi. Bisturi e carne. Rigore e intelligenza. Parole chirurigiche e minute. Occhiali per saperle sistemare in pagina, mai truccando, mai mescolando alla sincerità una goccia di bevanda adulterata. E la sincerità nel cronista è una dote rara che si poggia su due elementi. La voglia feroce di vedere e spiegare, l’umiltà di chi sa che in perfetta buonafede si può fallire.
Perché D’Avanzo era una splendida bestia rara? Perché è il contesto che ha reso strani quelli come lui. I lettori hanno rinunciato a capire, forse storditi dal troppo bombardamento. I lettori vogliono sapere, emozionarsi, patire, gioire, parteggiare. Non intendono intendere, isole felici e avvertite minoranze escluse. Buttano via il filo rosso di una vicenda e tengono il grasso. Rinunciano all’essenziale per il superfluo.
Archiviamo dunque il dolore per la scomparsa di Giuseppe D’Avanzo, con dolore. Con la sobrietà della trincea che sa piangere un valoroso soldato senza fingere né esagerare. E rinnoviamo la nostra amarezza, l’eco di una voce nel deserto. Lettore vero, volto d’ombra, dove sei?