PALERMO – Si ha la netta sensazione di essere seguiti, spiati quando si mette piede a Castelvetrano e dintorni. È il destino di chi transita nella terra di Matteo Messina Denaro. Uno spiegamento di forze che non ha eguali su tutto il territorio nazionale. La concentrazione di agenti e microspie lo ha reso il paese più sorvegliato d’Italia. È per questo che fa più impressione il silenzio del latitante. Non ci si attendeva certo di captarne la voce, ma almeno un segnale, seppure indiretto. Ed invece niente di niente, se non rari esempi – tutti da interpretare – al netto delle minchiate di chi fantastica di averlo incontrato sotto l’effetto dell’idolatria.
Qualche giorno fa il procuratore aggiunto Teresa Principato ha convocato poliziotti e carabinieri per fare il punto sulle ricerche. Punto e a capo, è il caso di dire, visto che Principato da una manciata di ore non è più il coordinatore delle indagini sul latitante. Il suo mandato è scaduto. Alla teorizzatrice delle coperture massoniche e istituzionali del latitante la legge garantirebbe un “paracadute” di lusso. Potrebbe tornare al suo precedente incarico, e cioè alla Direzione nazionale antimafia. Al termine del confronto con gli investigatori la sintesi del magistrato è presto fatta: non c’è un indizio, neppure confuso, sul nascondiglio del boss.
A Palermo nei prossimi mesi la gestione delle indagini sul latitante subirà una rivoluzione. A cominciare dal controllo di quella pioggia di intercettazioni che finisce per sbracare il campo di intervento. Messina Denaro è ancora latitante. Tanto basta – al di là di meriti e demeriti pregressi e del coordinamento spesso burrascoso delle forze di polizia – per giustificare il cambio di passo. Probabilmente serve un nuovo metodo investigativo senza buttare via tutto ciò – e non è poco – che finora è stato fatto.
“Cioè arrestano tutti i tuoi fratelli, le tue sorelle, i tuoi cognati e tu non ti muovi? Ma fai bordello… svita a tutti… dice ‘uscite tutti fuori…. sennò vi faccio saltare’”, diceva un mafioso di San Giuseppe Jato, in provincia di Palermo, in un’intercettazione di alcuni mesi fa. Non c’è parente del latitante che non sia finito nei guai giudiziari. E così si registrano voci che non finiscono negli atti ostensibili ma che descrivono le peripezie per campare dei familiari del latitante. Sono in crisi economica. Chissà se fingono. Chissà se recitano una parte a misura del fantasma. Certo l’immagine di una famiglia squattrinata poco si concilia con l’assioma investigativo per cui dietro ogni spillo piantato nel Trapanese c’è la regia del padrino. Un po’ come “il cerchio che si stringe” attorno al latitante ogni qualvolta arrestano qualcuno. Il postulato dell’immanenza viene sbandierato ad ogni blitz o sequestro. Perché se non c’è di mezzo Messina Denaro il peso, soprattutto mediatico, delle operazioni si ammoscia, diventa un fatto di provincia che resta confinato alla Sicilia. Dunque, non fa notizia. Lui no, Matteo Messina Denaro ha tutto un altro appeal. E così, stando ai dispacci investigativi, il conto dei beni sequestrati al latitante avrebbe sfondato il tetto dei tre miliardi di euro. Finisce per appartenere al capomafia finanche il fazzoletto con cui ci si soffia il naso.
L’immanenza e l’assenza (definirla trascendenza sarebbe troppo per le implicazioni religiose del termine). Nella caccia a Messina Denaro si registra la guerra degli opposti. Da un lato il Messina Denaro che tutto muove e dall’altro il fantasma che appare disinteressato alle faccende di casa propria. La casa della famiglia di sangue prima ancora che mafiosa. “Io sono del parere che questo qualche giorno si ritira… e gli altri vanno a fare cose a nome suo quando lui oramai non c’è più qua …. e sa dove minchia se ne è andato – dicevano sempre i mafiosi di San Giuseppe Jato – non c’è nessun accenno, un movimento… niente…”.
Messina Denaro è in fuga dal 2 giugno 1993, quando fu raggiunto da un mandato di cattura per le stragi di Roma e Firenze. Le ultime sue tracce concrete sono le lettere confidenziali che si è scambiato fra il 2004 e il 2006 con Svetonio, nome in codice di Tonino Vaccarino, l’ex sindaco di Castelvetrano assoldato dai servizi segreti per stanare il latitante. Dal carteggio veniva fuori il Messina Denaro pensiero. Se la prendeva persino con Bernardo Provenzano che al momento del suo arresto si era fatto trovare con una pila di pizzini, alcuni dei quali a firma “Alessio”, lo pseudonimo di Messina Denaro. “La devo informare di alcune vicende accadute. Come lei sa a quello hanno trovato delle lettere. In particolare delle mie pare ne facesse collezione. Non so perché ha agito così e non trovo alcuna motivazione”, scriveva il latitante a Svetonio di cui si fidava per via del legame fra Vaccarino e il padre, Ciccio Messina Denaro. Le lettere tracciavano un ritratto del boss che non si sa quanto corrisponda a quello attuale. Un boss che amava il lusso, le belle donne, gli affari milionari e s’interessava di cultura e politica. Un tipo guardingo tanto da non scrivere le lettere di suo pugno. Uno psicologo incaricato dalla polizia di studiare le sfaccettature della sua personalità ipotizzò che un misterioso scrivano elaborasse i suoi pensieri su commissione. Messina Denaro gli affidava le sue riflessioni e lui le scriveva in modo articolato, ricco di citazioni, colto. Il boss criticava, persino lui, l’antimafia di facciata dei politici e spiegava il suo tormentato rapporto con la religione nel momento in cui “mi resi conto di avere smarrito la mia fede. Mi sono convinto che dopo la vita c’è il nulla, e sto vivendo per come il fato mi ha destinato”.
Una sua impronta certa sono i pizzini recuperati a Montagna dei Cavalli, l’ultimo covo di Provenzano, nei quali si metteva a disposizione di Binu, nel pieno rispetto delle gerarchie, salvo poi criticarlo con durezza. Che errore, che ingenuità conservare la sua corrispondenza.
E poi ci sono i pizzini che nessuno ha mai letto. L’ultima catena di postini era gestita dall’anziano boss di Campobello di Mazara, Vito Gondola. Segno che per trovare qualcuno di cui fidarsi Messina Denaro ha dovuto guardare al passato, a un uomo giunto alla soglia degli ottant’anni. Tutti quelli con cui nell’ultimo ventennio ha avuto rapporti o contatti sono finiti in manette. Le indagini ci consegnano la figura di un boss sospettoso fino all’ossessione che risponde col contagocce ai suoi fedelissimi. Due sole sarebbero state le sue sbavature. Una volta il latitante si sarebbe fatto vivo con la sorella Patrizia, pure lei in cella. “Matteo dice… “. Il fratello ordinava e lei eseguiva quando c’erano in ballo direttive importanti. Come quando si era sparsa la voce che Giuseppe Grigoli, il braccio economico di Matteo Messina Denaro, l’uomo del business della grande distribuzione targata Cosa nostra, aveva iniziato a parlare con i magistrati. Il cognato Vincenzo Panicola – neanche a dirlo pure lui arrestato – aveva incaricato la moglie Patrizia di capire quale contromisura adottare. Si era presa in considerazione l’ipotesi di eliminare Grigoli. Poi, sarebbe arrivato il diktat di Matteo: “Non toccatelo, perché se parla può fare danno”. Come si sono messi in contatto? Forse attraverso una conversazione via Skype o sfruttando un’altra diavoleria telematica.
Siamo nel luglio del 2013, stesso periodo di un’altra intercettazione che confermerebbe la presenza di Messina Denaro in Sicilia. Giovanni Santangelo, zio materno del latitante, spiegava alla sorella Rosa che “gli servivano i soldi…”A chi? Il tono bassissimo delle voci non impedì di sentire pronunciare il nome “Mattè”. L’intermediario avrebbe dovuto essere “Enzo” e cioè Lorenzo Cimarosa, cugino del latitante. Neppure Enzo, deceduto di recente, con le sue confessioni ha aiutato i magistrati a stanare il latitante. Erano gli anni in cui si consumò uno strappo profondo in Procura fra Principato e l’allora capo Francesco Messineo. I pm antimafia che lavoravano su Agrigento avevano fatto arrestare Leo Sutera, un mafioso di Sambuca di Sicilia che, ne era convinto il procuratore aggiunto, avrebbe potuto condurli fino al latitante. Una pista bruciata, secondo alcuni. Una pista impraticabile, secondo altri, nonostante Sutera fosse stato fotografato mentre leggeva un pizzino attribuito a Messina Denaro in un casolare nelle sperdute campagne trapanesi.
Ed in questo contesto di mistero che hanno trovato spazio indicazioni impossibili da verificare, se non addirittura surreali. Uno degli ultimi pentiti a parlare del latitante è stato l’architetto agrigentino Giuseppe Tuzzolino. È stato lui a raccontare di un hard disk, mai trovato, con le fotografie di Matteo Messina Denaro nella cassetta di sicurezza dell’appartamento che Tuzzolino aveva preso in affitto a New York. Un latitante guardingo che si si lascia fotografare, come un qualsiasi turista, in Spagna, Jugoslavia e Svizzera. Così come Tuzzolino ha pure raccontato delle apparizioni del padrino di Castelvetrano ad alcune riunioni massoniche. Messina Denaro che si fa vivo nella sua Castelvetrano, sfidando chi controlla ogni centimetro del territorio trapanese. Possibile? Il risultato è che Tuzzolino è stato “posato” dal nuovo procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi, entrato in rotta di collisione con Principato. All’ex aggiunto sembrò rivolto il richiamo dell’anno scorso con cui Lo Voi ribadiva il divieto di rilasciare interviste. Un paio di giorni prima Principato – a cui si è chiesto spesso un autorevole parere in favore di telecamera – aveva parlato del capomafia latitante e della sua rete di protezione e connivenze anche fra le fila della ‘ndrangheta.
Tra le balle colossali sul conto del latitante ce n’è una che merita una citazione a parte. La si deve a Calogero Giambalvo, un consigliere comunale di Castelvetrano che disse di avere incontrato Messina Denaro mentre andava a caccia. Si abbracciarono e piansero. Messo con le spalle al muro Giambalvo ammise che era stata una vanteria senza capo né coda.
Un paio di mesi fa emerse dalle pieghe delle chiacchiere intercettate pure la passione del latitante per le carte, rigorosamente siciliane. Baldassare Di Gregorio, titolare di un’autofficina di Mazara del Vallo, considerato vicino a Vito Gondola, aveva avuto il privilegio di smazzare con il latitante. Voleva fargliela sotto il naso quel buontempone di Messina Denaro, ma Di Gregorio si accorse che utilizzava un mazzo truccato. Ecco a voi il Messina Denaro baro.
Le indagini del pool investigativo creato ad hoc per dargli la caccia e lasciarsi alle spalle i contrasti del passato – ne fanno parte poliziotti delle Squadre mobili di Palermo e Trapani, agenti del Servizio centrale operativo e carabinieri del Ros – di recente si sono concentrati sulla Svizzera, crocevia di fiumi di denaro. A Locarno è nato Domenico Scimonelli che ufficialmente faceva il titolare di un supermercato Despar e che potrebbe avere garantito il sostegno economico al latitante.
Guardingo, baro e pure giramondo. Tralasciando le dichiarazioni di Tuzzolino, a cui non credono neppure i magistrati, e i fantomatici avvistamenti del latitante seduto al tavolo di un ristorante irlandese (la taglia messa sul suo capo dai servizi segreti stimola la fantasia) è all’estero che lo piazzò una meno strampalata fonte investigativa. Tra il 1997 e il 2003 Messina Denaro sarebbe andato a Caracas passando da Amsterdam. Accompagnato da una donna bellissima e non italiana si sarebbe accomodato al ristorante Villa Etrusca di Valencia, terza città del Venezuela, per chiudere affari con i signori del narcotraffico.
Nell’imbuto delle ricerche è arrivato di tutto. Anche molta, troppa spazzatura che ha finito per giovare al latitante compresi i racconti di un detenuto secondo cui Messina Denaro si è rifatto il volto e ha cambiato la voce grazie a un intervento alle corde vocali. La sua lunga fuga, dice qualcuno che gli dà la caccia, lo ha reso “mafiosamente” morto. La rete di fiancheggiatori è stata via via scompaginata. Non gli è rimasto più nessuno su cui contare della vecchia guardia e allora se c’è qualcuno che lo aiuta è fuori dai circuiti mafiosi che andrebbe ricercato, senza per forza adombrare chissà quali coperture istituzionali degli uomini neri che riescono a prendere per il naso tutti quelli che lo stanno cercando. E sono tanti. Magari si scoprirà un giorno che fa il portiere in un albergo anonimo di provincia oppure – per alimentare il mito che si è creato attorno alla sua figura – se ne sta seduto su un lettino al sole di un’isola sperduta. O, ancora, si nasconde in un casolare a pochi passi da casa, proprio come Bernardo Provenzano che fu arrestato nella sua Corleone da Renato Cortese, allora capo della Catturandi della Squadra mobile. Cortese è tornato a Palermo. Ora fa il questore e appare scontato che contribuirà al cambio di passo.
Dove si nasconde Messina Denaro, chi lo protegge? Totò Riina nelle conversazione stimolate dal suo compagno di passeggiata, Alberto Lorusso, nel carcere milanese di Opera, si doleva per il menefreghismo del padrino di Castelvetrano. “Questo signor Messina – sbottava Riina – questo che fa il latitante che fa questi pali eolici (è uno dei tanti business che sono stati attribuiti al latitante)… ci farebbe più figura se la mettesse nel culo la luce e se lo illuminasse… fa pali per prendere soldi ma non si interessa…”