(rp) Quando abbiamo sollevato il tema della giustizia e dei magistrati, intendevamo muoverci dentro un sentiero logico, di razionalità e pacatezza. E’ vero che i tre gradi di giudizio sono una garanzia. Ma è vero che, in mezzo, ci sono spesso detenzioni perlomeno discutibili che non possono essere archiviate come un incidente di percorso, perché si tratta pur sempre della vita delle persone. Si può discutere senza erigere le barricate? Si può parlare di magistrati, con i magistrati, senza demonizzazioni reciproche? Per Gianfranco Miccichè, evidentemente no. Il suo intervento di ieri sul tema è stato sproporzionato e brutale. Citiamo qualche passaggio: “La vicenda di Giovanni Mercadante e quella di Dario Allegra ci mostrano, in tutta la loro crudezza, le due facce della responsabilità. Dario Allegra è stato ritenuto dall’assessore/Pm Massimo Russo responsabile di un disservizio e ha pagato, è stato licenziato. Qual è, invece, il prezzo che pagherà chi ha compresso la libertà personale di un innocente? Anche questa volta il Pm Massimo Russo si metterà davanti a una telecamera chiedendo scusa a Giovanni Mercadante e le dimissioni di coloro che ne hanno calpestato la dignità di uomo, di politico, di professionista, di marito, di padre, di nonno?” (con tutto lo sforzo, non riusciamo a comprendere il parallelismo, se non alla luce di una polemica personale e sovente dai toni sgraziati contro l’assessore Russo).
Sulla libertà dei pm di “ammazzare un uomo”, ricordiamo che la giustizia, nella sua prassi, è composta da diverse figure e che l’accusa è solo una tessera del mosaico. I giudici sbagliano, come tutti. E noi avremmo voluto proprio sollevare un dibattito sul punto. Ci sono errori ed errori. E’ lecito immaginare un contesto diverso, l’introduzione di una responsabilità più marcata? Ma se Miccichè considera le toghe eversive e assassine, il discorso, per quanto ci riguarda, finisce qui.
Come si sa, “Il Foglio” ha una rubrica quotidiana in cui infila le presunte castronerie di Vendola. Si intitola: “Nichi, ma che stai a di’?”. Ci sembra appropriato rivederla per l’occasione, in salsa siciliana: “Miccichè, ma che stai a di’?”.