PALERMO – “Dalla disamina serena di quanto mi è occorso dal punto di vista professionale, ho tratto la convinzione che se, a parole, la condanna delle manifestazioni mafiose è unanime ed espressa sempre con toni perentori, nella realtà, quando si va al concreto e bisogna esporsi rischiando qualcosa, sono pochi coloro che si impegnano effettivamente”. Lo ha detto il generale Mario Mori nelle dichiarazioni spontanee nel processo dove è imputato, assieme al colonnello Mauro Obinu, di favoreggiamento aggravato davanti alla quarta sezione del Tribunale di Palermo. “Risulta infatti più facile – ha proseguito – proporre a posteriori analisi e soluzioni, senza mai la controprova del riscontro pratico, criticare col senno di poi ogni decisione a suo tempo assunta sul terreno, mettere in dubbio ed interpretare, ai propri fini, le azioni di chi concretamente ha operato dovendo decidere nell’immediatezza e non disponendo sempre di dati conoscitivi sufficienti per definire condotte e strategie aderenti alle necessità del momento, piuttosto che operare direttamente, mettendoci la faccia, e quindi con rischio personale, contro un’organizzazione criminale spietata e sempre in grado di offendere”.
Per Mori “produrre, ovviamente a distanza di molti anni, versioni e ricostruzioni avventurose e decontestualizzate, risulta esercizio abbastanza facile, potendosi appoggiare a pochi fatti certi e neutri, sulla cui trama qualche personaggio interessato può sempre aggiungere interpretazioni o menzogne rese credibili dalla mancanza di documentazione specifica e dalla scomparsa di molti dei protagonisti di quei fatti”. “Il tutto – ha aggiunto – ripreso da una serie di commentatori, opinionisti, esperti della materia, studiosi e politici ideologicamente connotati e ben collegati all’ambiente mediatico-istituzionale che conta, i quali, come tanti pappagalli, avendo al massimo una pallida e limitata idea dei fatti su cui si discute e che peraltro non hanno vissuto, distillano pareri ed emettono condanne o assoluzioni sulla base del tornaconto personale e dei propri orientamenti ideologici, senza accorgersi di fare per lo più dello squallido pettegolezzo, ma indicando i propri obiettivi e proponendo le proprie tesi ad un’opinione pubblica disabituata alle valutazioni frutto di soggettive elaborazioni ed ormai orientata a coltivare il culto della ‘presunzione di colpevolezza’ a priori”.