Forse c’è una ragione per tutto il dolore e la sofferenza che siamo costretti a vivere, ma spesso non riusciamo a vederla. Può capitare, ad esempio, che un giorno ti svegli e ti accorgi che qualcosa, dentro di te, è cambiato. Il tuo corpo non è più un tempio, ma una prigione dalla quale vorresti fuggire. Ti senti come un gabbiano chiuso in un recinto che vorrebbe aprire le ali e volare oltre l’orizzonte. Così si sente Nicola, 26 anni, operaio. Uno sguardo gentile, profondo. Uno sguardo che mette a nudo l’anima. Nicola ha scoperto di essere gay quando era adolescente. Ne ha preso coscienza lentamente, ma non riesce a definirsi tale. Lui, con un padre carabiniere, uomo un po’ all’antica, e una madre che elenca con finta indifferenza i matrimoni dei cugini, osservando di nascosto l’anulare del figlio ancora senza fede, non si sente pronto.
“È come se fossi in una terra di mezzo – dice – da un parte c’è il mondo virile, fatto di testosteroni e uomini che non devono chiedere mai. Dall’altra parte, invece, c’è un mondo caricaturale con gente che si dichiara gay e combatte il concetto di diversità a colpi di boa di struzzo fucsia al collo e pantaloni in lattice nero”. Non ha mai partecipato a un gay pride, Nicola. “Non si celebra l’orgoglio gay esaltando gli stereotipi”. Nicola vive in casa con la famiglia che lo ama e protegge più che può. Perché lui è riservato, timido, educato e goffo. Soffre in silenzio, senza fare rumore. Ha smesso di uscire con le ragazze. Ha smesso anche di andare a Messa. “A 17 anni sono entrato in una chiesa per confidarmi con il sacerdote – racconta – ma il prete ha cominciato a farmi strane domande. Voleva conoscere i dettagli. Mi sono sentito a disagio. Non era più una confessione, quella”. Nicola che guarda il crocifisso, poi il prete. E capisce che lì dentro non c’è traccia di Dio. “Da quel giorno non sono più entrato in una chiesa”. Poi l’incontro che gli cambia la vita.
Nicola conosce Leo, un ragazzo dallo sguardo gentile, come il suo. I due fanno amicizia. Anche Leo è gay. Ma per Nicola inizia un lungo calvario. Si sente confuso. Trascorre intere notti con gli occhi aperti, a guardare il soffitto e sperare che sia tutto un incubo. Va avanti, ma senza una ragione ben precisa. Al lavoro, ascolta le discussioni dei colleghi che vantano le loro conquiste da galletti con la fede al dito. “Ho immaginato di confessare ciò che sono – ammette – ma non so se riuscirei a sostenere gli sguardi dei colleghi. Loro si considerano normali con quel bagaglio di tradimenti e perversioni che si trascinano dietro. Tornano a casa, la sera, e baciano i figli e le mogli con le stesse labbra con le quali magari hanno baciato una prostituta”. Nicola non vuole discutere di stereotipi e pregiudizi. “Non è vero che siamo tutti uguali. Siamo diversi e la diversità va valorizzata con la forza dei sentimenti. Io sono diverso da coloro che coltivano le depravazioni e cercano di spacciarle per normalità. Sono diverso dagli uomini che vanno con le minorenni, ma sono diverso anche dai gay che camminano con un collare borchiato”.
Una notte decide di andare a un locale, ma non riesce a entrare. Gli basta stare fermo davanti l’ingresso per capire che non è quello il suo mondo. Torna in macchina. Torna indietro. “So che il mondo gay non è solo quello – dice – ma non riesco a capire chi sono e dove devo collocarmi”. Accanto a sé, ci sono i suoi genitori che aspettano, in silenzio, di diventare nonni. “Prima o poi dovrò deluderli – dice – so che farò male alle due persone che amo di più al mondo. È questo che mi uccide”. Nicola ha un poster appeso sulla parete della stanza. Ritrae un gabbiano che vola libero. Trascorre ore a fissare quell’immagine. “Ho paura”, confessa. “Paura di spiccare il volo e scoprire poi di non essere pronto a sostenermi con le mie ali”. Apre la finestra. Guarda il cielo. Non lo dice, ma sta cercando ancora Dio. E una ragione al suo dolore.