CATANIA – Brutti, sporchi e cattivi. Si potrebbe titolare così questa storia, ripetendo il titolo della pellicola di Ettore Scola del 1976, dove la periferia romana diventa quella catanese e dove le miserie morali lasciano il posto solo a quelle materiali. I personaggi di questo ipotetico film li potete trovare in Cattedrale: sono le famiglie che da giorno 28 novembre protestano per avere un tetto e un aiuto. Sono i nuclei familiari dei quartieri “disagiati” di Librino, San Giorgio e Pigno, della periferia etnea. Sono 15 le famiglie che hanno avuto il coraggio di metterci la faccia, ma nei quartieri periferici sono molte di più. La loro rabbia esplosa, in maniera eclatante ma sotto un silenzio che è sembrato assordante, avevano occupato il Sagrato della Cattedrale in piazza Duomo e per otto giorni hanno dormito fuori dalla chiesa. Una protesta silenziosa, interrotta solo dal viavai dei curiosi che cercavano di capire cosa facessero quelle persone lì. Scenario che cambia quando l’Arcivescovo Salvatore Gristina ha deciso che era ora di aprire le porte della Cattedrale e seguire il messaggio di Papa Francesco “le porte delle chiese sono aperte a tutti”.
In questi giorni, molti di loro (GUARDA LE FOTO) non hanno parlato, per timore, per vergogna; non hanno parlato ma oggi decidono di rompere il silenzio e di spiegare quali situazioni caratterizzano i quartieri “disagiati”, quelli a rischio, quelli dove lo Stato lo senti e lo vedi soltanto quando il rumore di un elicottero ti sveglia alle prime ore del mattino per un blitz. “Sono qui per un tetto – racconta Rosy, 25 anni – sono stata sempre senza un tetto sulla testa, ho quattro figli e sono sola. Mio marito si trova in carcere e io cerco di arrangiarmi, vivo da mia suocera in una situazione che… Non lo racconto mai quello che si prova, mai!”.
“Sono senza lavoro e senza casa – parla Concetto, 25 anni – sono sposato e ho due bambine una di tre anni e l’altra di sei. Non vedo le mie figlie da due anni, perché io e mia moglie siamo separati, e io non ho la possibilità di avere un rapporto da padre, non ho nulla. Da quando ho avuto un incidente stradale la mia vita è cambiata – continua. Non posso fare tantissimi lavori, ho riportato lo schiacciamento di quattro vertebre e la rottura di quattro anelli della spina dorsale. Dovunque mi sono presentato la risposta è stata “Niente, non si può fare niente” e adesso sono qua per gridare il mio disagio e cercare, forse, un aiuto che, avevo pensato, potesse arrivare dai servizi comunali”.
“Io ho quarant’otto anni – ci dice Pietro – e vivevo in affitto con quattro figli e quattro nipoti, pagavo 350 euro al mese. Chiaramente tutti vivono con me, non hanno nulla e una delle mie figlie è invalida. Ho fatto la domanda per una casa popolare e sembrerebbe che il mio posto è il 409 di una lista, boh. Anch’io sono disabile, ma questo è a parte, siamo stati ovunque anche ai servizi sociali, ma nessun tipo di aiuto”.
“Io sono stata “sfrattata” perché occupavo abusivamente un ufficio a Librino – dice Loriana, 25 anni – ho due bambini una di quattro anni e uno di sedici mesi sono separata e mi ritrovo totalmente sola. Ricevo solamente 160 euro del bimbo e gli 80 euro della carta sociale, per il resto non sono stata da nessuna parte, non ho chiesto nulla, ma non posso più continuare così”.
Tante storie diverse ma simili. Tante vicende che raccontano una città, quella che non viene rappresentata, di cui un po’ ci si vergogna. Ma che esiste e si fa sentire. Come quella di Desirée, e di sua figlia di quasi due anni affetta da un broncospasmo. “Io e mio marito abbiamo provato a chiedere un’abitazione, negli uffici vicini al faro Biscari, ma la risposta è stata che i punti (6) di nostra figlia non erano sufficienti per entrare in graduatoria. La diagnosi che “col tempo potrebbe passare il broncospasmo” impedisce anche l’attuazione della legge 104. Non sappiamo più cosa fare e dove andare e mia figlia fa parte di una lista, al Policlinico, di bimbi a rischio”.
Cristina invece ne ha due di bimbi, uno di sette anni e l’altro di otto: lei ha 23 anni suo marito 27. “Mio marito ha una patologia rara, il Sarcoma a cellule di Langherans. Ho presentato la domanda per la casa popolare e mi hanno risposto che devo aspettare, ancora, l’assegnazione di 300 alloggi. Addirittura mi era stato riferito che facevo parte di una graduatoria speciale, ma dal 2015 ad oggi nessuna risposta e tra chemioterapie, la mancanza di lavoro e quella della casa siamo al limite”.
“Io mi chiamo Giusi, ho 25 anni e siamo senza casa e senza lavoro sia io che mio marito. Abbiamo tre figli, una di otto, una di tre e l’altro di un anno e mezzo. A Librino viviamo in uno dei famosi garage privati, abusivamente, ma tra poco dobbiamo lasciare anche questa abitazione, se così si può chiamare. Siamo in graduatoria per le case popolari, cinquantasettesimi, ma non sappiamo ad oggi cosa vuol dire. Abbiamo lasciato recapiti telefonici a tutti gli uffici preposti, da qualche anno attendiamo una risposta”.
Agata ha 22 anni, una bimba di due ed è in stato di gravidanza da cinque mesi. “Niente casa e niente lavoro, vivo da mia madre. Mio marito si trova agli arresti domiciliari e non abbiamo nulla di nulla. Quando hai una bimba e tutte le porte si chiudono ti manca il terreno sotto i piedi e non sai cosa fare, la senti piangere e non sai cosa fare e lì, in quel momento, hai già sbagliato”.
Giuseppe ha 37 anni e una compagna con una figlia di sette. “Viviamo a casa di mia madre, prendiamo un sussidio di 290 euro ogni due mesi, ma per la casa nulla e per il lavoro ancora peggio”. Storie dei quartieri periferici che si intrecciano tutte con un unico filo conduttore, la ricerca di un tetto e di un lavoro. Uguali a quelle di Leonela. che a 23 anni e una figlia di un anno e due mesi da un anno e mezzo senza casa. Oppure quella di Luca che ha 25 anni e vive una situazione un po’ particolare, i suoi genitori tra poco perderanno la casa e non sanno più dove andare, la perdita di un lavoro e il mancato pagamento del mutuo alla base di una disperazione che non conosce età.
E ancora Davide, Agata, Maria Grazia, Filippo e altri, molti altri. “E’ come se nascessimo in un posto di merda e dovessimo anche morire nella merda, senza che nessuno sappia nulla, senza che nessuno guardi nulla, senza che nessuno intervenga, senza che nessuno ci parli, al massimo riceviamo un sorriso, ma così, quello di compassione, perché noi siamo della periferia e si sa com’è la periferia. Meglio non averci a che fare”.