(Roberto Puglisi) Sopra viale Strasburgo brilla una dolce serata palermitana. Si sentono le voci dai balconi, al profumo di gelsomino, che cominciano ad aprirsi al desiderio di un’altra estate. C’è l’eco dei richiami tra madri e padri, figli e figlie, mentre si avvicina la cena e fervono piccoli preparativi domestici. Non sono più gli anni Ottanta con le riunioni familiari davanti a un televisore discreto, che non voleva dare troppo fastidio. Ma, stretti in mezzo a tablet, whatsapp e il resto, forse, si riesce ancora a parlare e a scambiarsi impressioni sul giorno che è appena andato.
Al tavolino di un locale, ecco Lara Messina e Antonio Mancuso, lei professoressa a scuola, lui professore all’Università. Sono qui per raccontare la vita di Diego, diciannove anni, figlio bellissimo e amatissimo, spenta dalla dipendenza dalla droga e dal crack. Diego era amico fraterno di Giulio Zavatteri, ucciso da un’overdose, alla stessa età. A Giulio, scomparso tre mesi prima, Diego aveva dedicato un brano rap con un testo possente che toglie la pelle e arriva dritto al cuore, rimbombando di cose terribili e profonde. L’abbiamo ascoltato nella serata del Teatro Massimo, dedicata alla ‘Casa di Giulio’, la struttura di accoglienza che Francesco Zavatteri, il papà del ragazzo, vorrebbe creare a Ballarò. Il cielo sopra viale Strasburgo offre riparo al racconto dell’unica voce. La voce della madre e del padre di Diego, attraversata dal dolore, sostenuta da inesauribile amore.
“Se siamo qui è per sensibilizzare tutti, per portare avanti il progetto di Francesco. In questo momento, nelle piazze di spaccio, ci sono ragazze e ragazzi che rischiano la vita. Il nostro Diego ha avuto i primi problemi con la cannabis. Perché? Non lo sappiamo. Molte ombre della sua esistenza non le conosceremo mai. Lo abbiamo messo in guardia, affrontando il fatto come una tappa dell’adolescenza su cui tenere aperti gli occhi. Il crack è venuto dopo. A quindici anni, nostro figlio era dipendente dalla cannabis. Abbiamo preso appuntamento con una psicologa, ne abbiamo girati tanti di terapeuti. Diego si stancava e mollava”.
“Per diversi anni il guaio più grosso è stato proprio l’uso di cannabis. A un certo punto, sì, sono arrivate le droghe pesanti. Durante la pandemia, la situazione è peggiorata. Lui si sentiva prigioniero, in cattività. Voleva uscire a tutti costi, ma non si poteva. Avevamo pensato di mandarlo a studiare un anno fuori, in Argentina. Era tutto pronto… Il Covid ha provocato delle ferite gravissime. Diego diventava sempre più aggressivo, specialmente se toccavamo certi punti, nelle discussioni. Credevamo che la tragedia immane di Giulio fosse un monito, qualcosa su cui riflettere. I ragazzi dipendenti dalla droga assumono di tutto. Diego è stato un bambino normalissimo, circondato dall’amore e che dava tanto amore. Era una persona sensibile, un po’ solitaria, con uno sguardo capace di andare oltre le apparenze e con uno spiccato talento artistico. Si era appassionato alla cucina, preparava la cacio e pepe, la sua specialità. Alla nonna aveva confidato: ‘Sai, la musica mi porterà lontano’”.
“A ottobre l’ho trovato in bagno che fumava, si è messo a piangere con me – ora è Lara che parla -. Mi ha giurato che non sarebbe successo mai più, che era dispiaciuto del dolore che mi arrecava”. Riprende fiato la voce unica, ognuno porta il suo pezzo di storia e si va verso il tremendo epilogo.
“La sera prima di morire ha avuto una crisi d’astinenza molto violenta. E’ stato ricoverato in ospedale. Ha messo firma ed è tornato a casa. Poi, è successo. Abbiamo disperso le sue ceneri in mare, come avrebbe voluto. L’acqua luccicava contro i raggi del sole con uno sfolgorio particolare, impossibile dimenticarlo. Vogliamo che nessun genitore soffra come stiamo soffrendo noi. Ecco perché è necessario che il centro di accoglienza a Ballarò diventi realtà, senza perdere tempo. In questo momento c’è qualcuno che rischia”. Nel telefonino del padre c’è un video. Il mare appena increspato, intessuto di trame luminose. La sera palermitana procede verso la notte, con le sue voci che si rincorrono. C’è ancora qualcosa che rimane nel silenzio. La voce di un figlio.